QUANDO LA STANZA INVECCHIA

QUANDO LA STANZA INVECCHIA

“Jung morì nel 1961, all’età di 86 anni.
Nello scritto Gli stadi della vita (1930/1931) troviamo i temi principali della sua riflessione sull’invecchiamento e sul corso della vita.
Durante la prima metà della vita l’uomo deve costruire un Io robusto e raggiungere gli obiettivi storicamente definiti dall’ambiente sociale.
Ciò comporta tuttavia una mutilazione della personalità perché alcune funzioni vengono represse, rimangono inutilizzate o indifferenziate.
Lo sviluppo è intrinsecamente unilaterale.
Dalla tensione tra radicamento nel mondo e mutilazione di alcuni importanti aspetti della soggettività nascono la crisi della seconda metà della vita e la spinta profonda, compensatoria, a riappropriarsi dell’altra metà di sé.
Invecchiare è difficile.
L’uomo contemporaneo non ha più il conforto di un rito che conferisce all’invecchiamento un significato condiviso dalla collettività.
L’unica guida che rimane, afferma Jung, è la voce dell’inconscio.
La relazione tra l’Io e l’inconscio – ovvero tra lo sguardo razionale della coscienza e le produzioni inconsce personali e collettive – rappresenta la via maestra per correggere l’unilateralità della coscienza e dei suoi valori e aprire la possibilità di riscatto di una vecchiaia vissuta come null’altro che decadimento.
L’avanzare dell’età non costituisce, in sé, una barriera all’individuazione poiché non provoca necessariamente la rigidità psicologica segnalata da altri autori.
La difficoltà sta nell’acquisire la capacità di comprendere, integrare e, se necessario, depotenziare i contenuti inconsci, alcuni dei quali posseggono una forza distruttiva che varia in relazione alla costituzione e alle vicende esistenziali.
Jung pone il quesito sul senso dell’invecchiamento.
Che cosa può spingerci a dire che il nostro invecchiamento non è riducibile al ritornare inorganici di Freud (1920)?
La risposta junghiana viene formulata nei termini seguenti.
Mentre il senso del mattino della vita consiste nel mettere radici nel mondo, trovare il proprio posto nella società, lavorare e amare, il senso del pomeriggio della vita consiste nel mettere radici nell’anima per accedere a un tipo di saggezza che supera l’Io e la sua prospettiva sul mondo.
Durante la prima metà della vita il fine è la “natura”, durante la seconda metà della vita il fine è la “cultura”, ovvero l’allargamento della soggettività, la differenziazione e l’integrazione delle parti della propria personalità fino ad allora rimaste inconsce.
Secondo Hillman (1967), il Puer e il Senex sono polarità dello stesso archetipo – l’archetipo Puer-Senex – che rimanda alla tensione tra vitalità e ordine, Io e Sé.
Hillman vede nei “sintomi della vecchiaia” – rigidità, ottusità e isolamento – non solo la conseguenza di una generica incapacità di entrare in contatto con l’inconscio quanto, più specificamente, il risultato della scissione del Senex dal Puer. Essa produce un grottesco ibrido senile e puerile che manifesta i lati negativi del Senex e del Puer.
In uno scritto Hillman (1999) afferma che il fine dell’invecchiamento coincide con il compimento e il disvelamento del “carattere”.
Il tempo della vecchiaia non è tempo inutile di decadimento e desituazione, vissuto nell’attesa della morte persecutrice e del ritegno del figlio edipico bensì grande avventura verso il compimento di sé, un’avventura che ha bisogno di longevità per svolgersi e concludersi.
Guggenbühl-Craig (1986) arricchisce le immagini della vecchiaia con quella del Vecchio Stolto.
Il Vecchio Stolto è un aspetto dell’ombra del Senex e possiede una funzione compensatoria rispetto alle visioni idealizzate e anestetizzate dell’invecchiamento (come a tratti appare la visione hillmaniana), dell’individuazione del Sé.
Allo stesso tempo, il Vecchio Stolto raffigura un aspetto d’ombra diverso da quello del vecchio re dispotico ricordato da Jung o dall’immagine freudiana della vecchiaia come esaurimento della psiche e ritorno a una dimensione inorganica.
Il Vecchio Stolto non è un re ma un buffone tutt’altro che inorganico.
Qualcosa di simile alla saggezza può essere raggiunto durante la vecchiaia ma ciò che rende difficile tale acquisizione è, secondo Guggenbühl-Craig, la perdita del contatto con l’inconscio e con la coscienza collettiva.
Il vecchio desituato si trasforma in figura storica, anacronismo vivente.
Ma non se ne accusa e accusa i giovani di disorientamento etico.
Dice che il mondo vive all’insegna dell’insicurezza ma non vede che lui stesso è insicuro e non sa più capire il mondo.
Mentre Hillman sottolinea la necessità di integrare il Puer col Senex, Guggenbühl-Craig propone di integrare l’immagine del Vecchio Saggio con quella del vecchio smemorato, pasticcione ed emotivamente labile: il Vecchio Stolto.
Ciascuna immagine è in sé parziale e perciò genera contenuti psichici distorti, emozioni, aspettative e convinzioni problematiche.
È cosa saggia invece accettare il deterioramento fisico e mentale, le malattie e la morte, accettare di essere anche una figura storica che ha perso il contatto con la coscienza e l’inconscio collettivi.
Lacivitas non deve imprigionare il vecchio nel mito della saggezza, non deve costringerlo a partecipare in modo costruttivo alle vicende della comunità.
Gli sia concesso – dalla società, dai figli, da se stesso – di essere saggio o sciocco, profondo o superficiale, di lavorare oppure oziare.
Coloro che si identificano con l’immagine del Vecchio Saggio diventano patriarchi cocciuti, convinti di possedere la saggezza e incapaci di vedere quanto sono sciocchi e tirannici.
Il mito del Vecchio Stolto non è tirannico: al vecchio non è richiesto di diventare stolto, soltanto gli è concesso, e lo può fare senza scandalo.
La medicina definisce l’invecchiamento come il progressivo e generalizzato decremento funzionale che conduce alla perdita della risposta adattativa allo stress e ad un aumento del rischio di malattie correlate all’età.
In questa definizione possiamo rintracciare il primo universale dell’invecchiamento: la dimensione ineludibile del decadimento.
Se riflettiamo sui modi in cui il soggetto fa esperienza del decadimento, siamo abituati a pensare alla perdita e al narcisismo ferito.
Tuttavia esiste una categoria più aderente all’esperienza dell’invecchiare, che raccoglie il tema della perdita e delle ferite narcisistiche ma supera il cerchio dell’individuo e include il rapporto dell’individuo col mondo.
È il secondo universale dell’invecchiamento: la desituazione.
Se consideriamo il decadimento e la desituazione come vincoli universali e tuttavia sempre aperti alla possibilità dei significati e della scelta, possiamo fare riferimento al discorso junghiano sull’individuazione e pensare il decadimento e la desituazione come universali appartenenti a un’esistenza che non approda necessariamente alla disperazione ma si mantiene aperta alla speranza, anche alla laica e paradossale speranza nella Morte e nel Figlio.
Nel passato molti autori sostenevano che l’invecchiamento porta l’individuo verso l’incoercibile coazione a ripetere i medesimi stili difensivi e di adattamento ai conflitti e alle frustrazioni.
Tutto ciò, assieme alla grande quantità di materiale della memoria ed allo spegnimento della libido, rende l’anziano non analizzabile.
Oggi, anche alla luce delle ricerche neurologiche sull’invecchiamento cerebrale e sulla plasticità neurale e delle ricerche epidemiologiche sullo stato di salute e sulle funzioni cognitive degli anziani, è ragionevole pensare che l’analizzabilità dell’anziano non sia determinata principalmente dall’età ma dal percorso esistenziale e dalla qualità del rapporto tra l’Io e l’inconscio.
Caduta la preclusione (biologica o pulsionale) all’analizzabilità, che in fondo rifletteva una rigidità della psicoanalisi più che dell’anziano, il problema può essere riformulato nei termini della relazione tra paziente anziano e terapeuta (più giovane), evidenziando anche il contesto collettivo in cui avviene tale relazione.
La relazione tra paziente anziano e terapeuta (più giovane) può essere considerata da quattro punti di vista: la maggiore fragilità del corpo (il decadimento), la marginalità dell’anziano nella società (la desituazione), la rigidità, la dinamica Puer-Senex nel terapeuta (la soggettività del terapeuta) (Spagnoli e Pierri, 2001).
Vediamoli brevemente.
Il corpo dell’anziano è più fragile tuttavia il terapeuta può rimuovere questo fatto e vivere un senso di irrealtà quando, durante la terapia, compare un evento clinico intercorrente.
Il corpo fragile provoca un senso di fragilità rispetto allo spazio e evoca i vissuti di morte: la morte è certo riconducibile al simbolico ma, soprattutto nei pazienti molto anziani, è lì davvero, vicino al paziente e al terapeuta.
L’anziano va in psicoterapia (o viene inviato allo psicoterapeuta, spesso sollecitato dai figli) sospinto da una “sindrome ansioso-depressiva”, da disturbi somatoformi o da una demenza iniziale.
Spesso è un non-responder alle terapie con psicofarmaci prescritte dal medico di base.
In alcuni casi la richiesta è più specificamente analitica e allora quasi sempre proviene da persone che in passato sono state in analisi o comunque hanno avuto esperienze psicoterapeutiche.
Indipendentemente dalla ragione dell’invio o dalla natura della crisi motivante, il paziente anziano patisce un senso di marginalità, si sente sempre più estraneo al mondo, inutile, invisibile, desituato e con questi sentimenti deve misurarsi.
A maggior ragione oggi, poiché la tecnica ha nullificato l’esperienza del vecchio.
Così il radicamento nell’anima di cui parla Jung trova due origini: da un lato l’individuazione come spinta interiore, dall’altro la desituazione come alienazione rispetto al presente.
Il mondo risulta estraneo per gusti, linguaggi, valori.
Perdiamo il mondo e lo possiamo ritrovare soltanto attraverso un’apertura che non proviene dall’Io.
In questa nuova apertura sta la sostanza del discorso junghiano sull’invecchiamento, dell’idea eriksoniana di saggezza (Erikson et al., 1986) e del concetto kohutiano di narcisismo cosmico (Kohut, 1978).
Secondo la visione tradizionale, nell’anziano la libido narcisistica prevale rispetto a quella oggettuale e i meccanismi di difesa, che mirano a ridurre l’ansia e proteggere l’autostima, si irrigidiscono, ovvero divengono pervasivi, automatici e ancora più inconsci.
Tutto ciò rende impossibile la trasformazione.
Altri autori hanno sottolineato la dimensione dinamica e qualitativa delle difese rispetto a quella energetica ed “economica”. Si può così riformulare il tema della rigidità psichica dell’anziano nei termini della qualità maturativa dei meccanismi difensivi.
La repressione, la sublimazione, l’altruismo, l’umorismo si presentano come difese che consentono, anche nella vecchiaia, un migliore equilibrio tra adattamento e creatività rispetto alla rimozione, alla scissione e all’eccesso di identificazione proiettiva.
L’affermazione di Jung che le persone nella seconda metà della vita pongono al terapeuta, in vari modi, il problema esistenziale (inteso come domanda di senso), deve essere vista anche sotto il profilo del contro-transfert: tale problema, e i sentimenti da esso costellati, coinvolgono profondamente la soggettività del terapeuta e in particolare costellano i motivi del decadimento, della desituazione, della Morte e del Figlio.
In fondo l’anziano, sofferente o felice, incarna anche una domanda di senso rivolta a se stesso, al terapeuta e alla società.
Qual è il senso della vecchiaia?
Qual è il senso del lavoro di chi opera nei servizi sanitari e sociali per gli anziani?
La società attuale  sottrae dignità all’invecchiamento relegandolo tra i disvalori collettivi.

Alberto Spagnoli
Quando la stanza invecchia
Il medico junghiano e il paziente anziano
Questo testo è tratto dal saggio “Quando la stanza invecchia”, e compare nel volume di autori vari, a cura di Maria Irmgard Wuehl  pubblicato dall’editore VivariumNella stanza dell’analista junghiano.

Il presente post ha il solo scopo di divulgare il libro da cui è stato tratto senza scopo di lucro e ha ricevuto formale autorizzazione da parte della casa editice Vivarum.

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Alberto Spagnoli

psicoterapeuta, ha pubblicato, fra l’altro E divento sempre più vecchio (Bollati Boringhieri, 2001); è impegnato nel “Aging, Progetto Finalizzato Invecchiamento.”

Note L’idea di psicoterapia psicoanalitica e di analisi come aiuto a prendere cura di sé, vivendo col paziente alcune esperienze che si intrecciano tra loro e sono riconducibili a: il supporto (che rimanda ai concetti di holding ed al rapporto contenuto-contenitore), la comprensione (pensabilità, dicibilità e comunicabilità dei contenuti psichici, con una particolare attenzione alle angosce, al confronto con l’ombra e ai meccanismi di difesa) e la trasformazione, ovvero l’emergere di nuove emozioni e pensieri che facilitano un adattamento creativo.

Bibliografia

Erikson E. H., Erikson J. M., Kivinick H. Q., (1986) Vital involvement in old age, Norton, New York.
Ferro A., (1996) Nella stanza dell’analisi. Cortina, Milano.
Freud S., (1920) “Al di là del principio di piacere”, Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Guggenbühl-Craig A., (1986) Il vecchio stolto e la corruzione del mito, Moretti & Vitali, Bergamo, 1997.
Hillman J., (1967) Senex e puer, Marsilio, Padova 1973.
Spagnoli A., Pierri M., (2001) “Psicoterapie ad indirizzo dinamico”, in Scocco P., De Leo D., Pavan L. (a cura di), Manuale di psicoterapia dell’anziano, Bollati Boringhieri, Torino.
Kohut H., (1978) La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1982