L’ANIMA DI JUNG

L’anima di Jung

“La psicologia, ancor prima che costruzione teorica è, innanzitutto testimonianza del processo psicologico che, in ogni individuo, ha i tratti dell’unicità e dell’irripetibilità”.

Scrive Jung:

“la psicologia ha lo scopo di rendere la persona più consapevole del proprio processo psichico ma in senso più profondo non è una spiegazione di tale processo perchè ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche”. La psicologia non è “nè biologia nè fisiologia nè alcun’altra scienza [ma] soltanto conoscenza della psiche o scienza dell’anima“.

Pertanto, continua Jung:

“chi vuole conoscere la psiche umana imparerà poco o nulla dalla psicologia sperimentale. Sarebbe per lui consigliabile riporre nel cassetto la scienza esatta, spogliarsi della toga del dotto, dire addio allo scrittoio e, armato di tutta la sua umanità, vagabondare per il mondo, attraverso gli orrori delle prigioni, dei manicomi e degli ospedali;

attraverso le tetre bettole di periferia, i bordelli e gli inferni del giuoco; attraverso i salotti della società elegante, la borsa, i raduni di partito, le chiese, i revivals e i riti estatici delle sette:

sperimenterebbe così sulla propria pelle l’amore e l’odio, la passione in tutte le sue forme;

tornerebbe arricchito di un sapere che i suoi fitti trattati non gli avrebbero mai dato, e sarà di miglior aiuto per i suoi pazienti, un vero conoscitore dell’anima umana.

Infatti, tra ciò che la scienza chiama “psicologia” e ciò che le persone, nella vita pratica, di ogni giorno, si attendono dalla “psicologia” si è scavato irrimediabilmente un abisso profondo”.

Consapevole dell’ineliminabile presenza del soggetto nel processo di costruzione del processo psicologico, Jung è dell’idea che ogni tentativo di descrivere la psiche conduca al riconoscimento non di una realtà oggettivamente data, ma solo di una prospettiva sulla psiche stessa.

Le acquisizioni della psicologia vengono quindi lette non come realtà assolute, ma come ipotesi, strumenti, modelli che, in quanto rappresentazioni, si danno relativamente e limitatamente a un determinato osservatore, la cui esperienza è filtrata – individualmente – dalla particolare tipologia psicologica a cui appartiene e – culturalmente – dal particolare momento del processo storico-scientifico in cui è inserito”.

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Dott. Donato Saulle

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 Fonti:
– R. Bernardini. “Jung a Eranos – Il progetto della psicologia complessa”.  Franco Angeli Editore
– C.G. Jung. “Der Geist der Psychologie” (1947/1954), tr. it.: “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche”, in : Op. Vol. 8, p. 240
– C.G. Jung. “Uber die Archetipen kollektiven unbevuBten (1935/1954),  tr. it.: “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” in Op. Vol. 9i pag. 29
– C.G.Jung. “Neue bahnen der Psychologie” (1912), tr. it.: “Vie nuove della Psicologia” in Op. Vol. 7 pag. 240

Immagine: Edward Hopper – Stanza sul mare

blu psicologo milano Ringrazio Alessandra Govoni per avermi segnalato l’interessante argomento.blu psicologo milano

C.G. Jung
PAUL DIRAC 1

(∂ + m) ψ = 0 – L’EQUAZIONE DI PAUL DIRAC

(∂ + m) ψ = 0

Paul Adrien Maurice Dirac (Bristol, 8 agosto 1902 – Tallahassee, 20 ottobre 1984).

Paul Dirac è stato un fisico e matematico britannico considerato tra i fondatori della meccanica e della fisica quantistica.

La meccanica quantistica è la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e delle loro reciproche interazioni.

La meccanica classica si dimostrò incapace di descrivere il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica a livello microscopico e su scale di lunghezza inferiori a quelle dell’atomo.

Come caratteristica fondamentale, la meccanica quantistica descrive la radiazione e la materia sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove per esempio la luce è descritta solo come un’onda o l’elettrone solo come una particella.

Paul A.M. Dirac

Paul A.M. Dirac, premio Nobel per la Fisica nel 1933, come teorico viene annoverato tra i fondatori della meccanica quantistica ed è famoso per le sue equazioni.

(∂ + m) ψ = 0  è l’equazione forse più famosa di Dirac e significa che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce».

É il cosiddetto fenomeno quantistico dell’«entaglement», che fornisce la base per la nuova visione filosofica del mondo.
Dirac era un ricercatore solitario, taciturno, al punto che i suoi colleghi, scherzando, avevano coniato una nuova unità di misura, il Dirac, che equivaleva ad una parola l’ora, il minimo che una persona potesse pronunciare in compagnia.
Ma, come succede spesso negli individui schizoidi, anche Dirac, dietro la sua apparente freddezza nascondeva una grande sensibilità.
La sua equazione  (∂ + m) ψ = 0  è ancora considerata la più “bella” della fisica.

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(∂ + m) ψ = 0 Dirac

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RABBIA E VENDICATIVITA’ – Il desiderio di pareggiare i conti

RABBIA E VENDICATIVITA’

L’uomo che coltiva per tutta la vita la propria vendetta mantiene le sue ferite sempre aperte”. 
F. Bacone

Con il termine rabbia si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto. Con la rabbia si prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stessi.

Di natura diversa è la vendicatività, cioè uno stato emozionale complesso che apparentemente nasce come reazione al dolore e alla rabbia successivi a una perdita. Le risposte più comuni conseguenti alla sofferenza della perdita di un oggetto d’amore sono quelle della tristezza o della depressione, sentimenti questi che possono giungere a innescare anche rabbia e desiderio di vendetta. Per Charles W. “Le osservazioni cliniche suggeriscono che la tristezza può continuare a essere l’aspetto predominante della depressione solo fino a che il soggetto riesce a mantenere l’investimento libidico sul mondo oggettuale operando una deviazione dell’aggressività sul Sè. Gli stati d’animo di rabbia e vendetta, oltre che da ferite e delusioni, possono essere fatti precipitare da un conflitto narcisistico, cioè da un conflitto avente a che fare con il senso di colpa o da una esperienza di fallimento o di grave sbaglio con conseguenti sentimenti di perdita, in cui l’aggressività diretta contro il Sè viene secondariamente rivolta verso soggetti esterni.

Mentre il sentimento della rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività è totalmente e inutilmente distruttiva. Il soggetto è in stato di forte malumore, appare implacabile, spietato, crudele, insensibile, inesorabile e inflessibile. Vive in funzione della vendetta, che sembra essere diventata l’unico scopo della sua vita. In preda a forti passioni, cerca di sfruttare qualsiasi occasione per dar luogo ad azioni punitive o di ritorsione, e al primo posto nella lista dei suoi desideri c’è quello di pareggiare i conti (in realtà, di andare anche al di là di un pareggiare i conti). Il quadro clinico è il medesimo sia che il soggetto pensi e agisca sulla base della convinzione di essere impegnato in una operazione di giusta punizione, sia nel caso in cui voglia dar corso a una rappresaglia maligna.

Si osserva una tendenza a mettere in atto la vendetta anche contro tutte le possibili avversità e a prescindere dai “costi” dell’operazione e alle conseguenze che possono giungere anche all’annullamento di sè. L’individuo in preda a questo stato non permetterà che il male che gli è stato fatto (vero o presunto) resti impunito. Protesterà insistentemente di non essere inferiore a nessuno e di non voler sopportare gli abusi arrecatigli da chichesssia. La persona vendicativa può essere, a tratti, consapevole dell’irrazionalità e inadeguatezza dei suoi sentimenti e dei suoi scopi, ma tale consapevolezza viene rapidamente oscurata dalla forza travolgente dello stato d’animo che prova. Non sperimenta alcun senso di colpa. Non mostra alcuna preoccupazione circa le possibili conseguenze morali, sociali e personali delle sue azioni.

A un livello psicologico più profondo il mondo del Sè e degli oggetti viene modificato, con la conseguente produzione di una serie di alterazioni del comportamento, del pensiero, degli atteggiamenti, dei valori, delle aspettative e della tonalità dei sentimenti. Il campo psicologico e mentale si restringe, l’orizzonte si oscura, il pensiero diventa ossessivo, la realtà viene interpretata come persecutoria e con il passare del tempo la situazione diventa cronica. Senza il continuo e necessario confronto con qualcuno che sappia ascoltare e mettere confini e limiti al proprio pensiero l’unica realtà diventa la realtà vendicativa che sostituisce il reale condiviso e il soggetto si sgancia dal proprio elemento umano. Se l’oggetto della furia vendicativa non è nel raggio d’azione di colui che cova i sentimenti di vendetta, può verificarsi un aumento dello stato di tensione. Il soggetto può avere la fantasia che in quello stesso momento stiano per essere perpetuate nuove cattive azioni contro di lui. La  somiglianza tra questi due aspetti e le fasi dello sviluppo paranoide è evidente, anche se non è necessariamente detto che nel soggetto vendicativo debba insorgere una condizione paranoide. Come in altre situazioni e stati d’animo di affettività intensa, la possibilità che una modificazione delle condizioni ambientali porti a una diminuzione della tensione è minima, perchè il soggetto tende a selezionare, per poi scartarli, tutti gli stimoli esterni che contraddicono il suo stato emotivo. Lo spirito vendicativo viene continuamente alimentato da una serie di immagini e fantasie sui presunti torti subiti. Il soggetto può anche dar luogo, consciamente e inconsciamente, ad atti nocivi per il suo immediato benessere, a partire dai quali procede poi verso lo stato di vendicatività, vissuto a quel punto come giustificato”.

Per Searles “Il fine conscio della vendicatività è il castigo, la punizione, nonchè un agognato stato di pace che ovviamente non si raggiungerà mai con il compimento della vendetta. Si osserva poi che di solito l’atto vendicativo stesso è altamente sovradeterminato. Da un punto di vista inconscio, il fine del soggetto vendicativo è quello di tenere nascosto un danno ancor più disastroso sofferto dal suo Io, un danno che costituisce la base di tutte le altre offese specifiche delle quali egli si lamenta. In questo senso l’atto vendicativo è un meccanismo di difesa la cui funzione è quella di nascondere traumi narcisistici più profondi. Si potrebbe forse dire che la vendicatività, o qualsiasi altra forma di ostilità, può servire come difesa contro la presa di coscienza di emozioni rimosse cariche di angoscia e la vendicatività sembra prestarsi in particolare alla rimozione dal dolore e dalla angoscia di separazione. Essa permette all’individuo di eludere o di postporre l’esperienza di questi due affetti, e della necessaria fase si separazione che porta la persona ad essere autonoma e adulta, perchè non ha veramente “rinunciato” alla persona verso cui è diretta la sua vendicatività: vale a dire, l’essere occupato con fantasie vendicative riguardanti quella persona serve, in effetti, a tenersi psicologicamente aggrappati ad essa.

I pazienti non si liberano dalla rabbia e dalla terribile sete di vendetta unicamente elaborando l’ostilità che è dentro di loro. Le radici della rabbia e della vendicatività saranno distrutte quando la terapia sarà riuscita a elaborare il dolore e l’angoscia da separazione situati nelle sfere più profonde, solo in quel momento il paziente potrà accostare i suoi simili in modo più flessibile e armonico”.

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Tratto da:
Bollati Boringhieri – Rabbia e vendicatività
Harold F. Searles – La psicodinamica della vendicatività – Rabbia e vendicatività  – Bollati Boringhieri
Charles W. Socarides – La vendicatività: il desiderio di pareggiare i conti – Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhieri
Immagine: Michelangelo – Anima dannata (part.)
Tags: rabbia, vendicatività

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“Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un giardino. Ci incontreremo laggiù” J. Rumi

Ben oltre le idee
di giusto e sbagliato
c’è un giardino.
Ci incontreremo laggiù”. 
J. Rumi

Oggi non parliamo direttamente di psicologia o di psicoterapia ma vogliamo proporre la poesia e la cultura di Mevlana Mohammed Rumi (nato nel 1207, morto nel 1273 a Konya) anche conosciuto come Jalāl ad-Dīn Muḥammad Rūmī (persiano: جلال‌الدین محمد رومی‎ ) che è considerato il massimo poeta della letteratura persiana.

Scrive Kabir Helminski il traduttore delle sue poesie in italiano: “quando iniziai a tradurre le poesie di Rùmì non avrei mai immaginato dove questo cammino mi avrebbe condotto. Quella che all’inizio mi sembrò una città esotica e lontana, il cui profilo e il cui aspetto iniziavo appena a distinguere, il luogo della poesia, ora è diventata un luogo più familiare, le cui strade e cui vicoli, non sono più visti in prospettiva, ma mi fanno sentire a casa. Per me questo mondo è reale e presente come quello esterno in cui vivo, e anche di più, perchè è un mondo di significati e non soltanto di “cose”.

Il suo genio letterario si rivela nei suoi versi di poesia lirica del Dīwān o canzoniere, noto come Divan-i Shams-i Tabrīz, considerato il suo capolavoro, un ampio arazzo in cui sono intessute favole e scene di vita quotidiana dei suoi tempi.

Per chi ha famigliarità con la sua vita e con le sue opere Rùmì è qualcosa di più di un poeta. Il tema della sua poesia non è la vita ma qualcosa di molto di più della vita. Mentre la maggior parte dei poeti ci propone costruzioni di pensieri e sentimenti accuratamente preordinati Rùmì scrive a partire da un luogo che è al di là del pensiero e del sentimento come noi li conosciamo: “I tuoi pensieri sono la sbarra alla porta. Rimuovi il legno”.

La sua poesia non è tanto la ricerca di una verità e di una conoscenza immanente o di una scoperta da farsi nel mondo esterno, quanto l’elaborazione di un immediato “adesso”, l’improvviso canto interiore dell’esperienza che inonda questo mondo senza appartenervi. E’ la conoscenza che trabocca di parole, suoni e immagini. La sua è conoscenza del tutto e, insieme, delle sue parti.

Rùmì costruisce il modello di uno sterminato mondo interiore utilizzando come metafora ogni possibile evento e situazione del mondo esterno. Cerca di scardinare le convenzioni del pensare e del sentire, cerca di cambiare i condizionamenti e portare il ragionamento oltre gli infiniti preconcetti e pregiudizi tuttora presenti nelle nostre società.

E’ da segnalare infine che l’opera di Rùmì non è frutto di ambizione letteraria, ma è un desiderio di essere utile. Per lo più i suoi componimenti lirici sgorgavano spontaneamente ed erano trascritti da chi si trovava ad ascoltare.

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J.RUMI Psicologo Milano Donato Saulleblu psicologo milano

Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milanoFonti:
Rumi – “L’amore è uno straniero” – Astrolabio-Ubaldini
http://it.wikipedia.org

LE PERLE AI PORCI

PARANOIA E SISTEMI RELAZIONALI

“Stanno giocando un gioco.
Stanno giocando a non giocare un gioco.
Se mostro loro che li vedo giocare infrangerò le regole e mi puniranno.
Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco” 
R.D. Laing

PARANOIA E SISTEMI RELAZIONALI

Quando la mente è considerata in termini di “extracelebrale” e “intracelebrale”, localizzare la patologia di un individuo nella mente, non indica se è all’interno o all’esterno della persona stessa.

La patologia può essere nell’individuo, nel suo contesto sociale o nell’interazione tra i due. Il confine artificiale diviene sfumato, perciò l’approccio al sintomo può cambiare.

Da questo punto di vista il tipo di terapia che ci si propone di illustrare si rifà a tre assiomi. Ciascuno ha un’accentuazione completamente diversa rispetto all’assioma relativo alla terapia individuale

Il primo assioma

Primo, la vita psichica di un individuo non è un processo totalmente interno.

L’individuo influenza il suo contesto e ne è influenzato tramite costanti e ricorrenti sequenze interattive.

L’individuo che vive, per esempio, in una famiglia è membro di un sistema sociale a cui deve adattarsi.

Le sue azioni sono regolate dalle caratteristiche del sistema, e queste caratteristiche riguardano anche gli effetti delle sue azioni passate.

Il soggetto quindi risponde alle tensioni in altre parti del sistema a cui si adatta e può contribuire in modo significativo a provocare tensioni in altri membri del sistema.

L’individuo può essere visto come un sottosistema o una parte del sistema tenendo però conto del tutto.

Il secondo assioma

Il secondo assioma che sottende questo genere di terapia è che i cambiamenti nella struttura famigliare contribuiscono ai cambiamenti nel comportamento e nei processi psichici interiori dei componenti del sistema.

Il terzo assioma

Il terzo assioma è che quando uno psicoterapeuta lavora con un paziente o con una famiglia, il suo comportamento diventa parte del contesto.

Lo psicoterapeuta si unisce per formare un nuovo sistema terapeutico.

Quel sistema poi regola il comportamento dei suoi membri.

Questa teoria, e cioè che il contesto influenza i rapporti interiori; che i cambiamenti di contesto producono cambiamenti nell’individuo; che il comportamento del terapista è significativo nell’attuare un cambiamento, hanno sempre appartenuto al fondamento razionale della terapia.

Sono stati il retroterra della letteratura sulla psicoterapia.

Tuttavia non sono mai divenuti centrali nella prassi psicoterapeutica, dato che l’artificiosa dicotomia tra individuo e ambiente continua a esistere.

Un esempio

Un esempio si può ricavare da concetti di paranoia e dalle modalità di pensiero paranoico, perchè è proprio in questo campo che una comprensione del contesto del paziente è essenziale.

Eppure, in termini intrapsichici, la paranoia è vista come un disturbo formale del pensiero, in cui la percezione degli eventi è determinata dai processi interni.

Secondo quanto scrive Haron Beck:

“tra le persone, la sequenza percezione-cognizione-emozione è ampiamente dettata dal carattere di richiesta della situazione-stimolo… [tuttavia] la persona che soffre di paranoia e quindi di un disturbo paranoico può astrarre in maniera selettiva quegli aspetti della sua esperienza che sono coerenti con la sua idea preconcetta di persecuzione e può dare dei giudizi arbitrari che non hanno fondamento in un reale condiviso.

Questi di solito, si manifestano leggendo, negli eventi, contenuti e significati nascosti.

Inoltre nella paranoia il soggetto tende a generalizzare eccessivamente episodi isolati di intrusione, discriminazione e così via.

In questi termini, la paranoia è un fenomeno psichico interno che solo tangenzialmente si riferisce alla realtà.

Confrontiamo questo passo con una concezione che tenga in debito conto il contesto ambientale.

Erving Goffman

Erving Goffman che ha studiato la paranoia, in uno studio su pazienti sofferenti di sintomi paranoici ha rilevato che nei primi stadi di sviluppo del sintomo il contesto sociale è complementare al paziente che sostiene la propria malattia.

Gruppi sociali significativi, quali colleghi, compagni di lavoro, cercano di trattenere il paziente, giacchè i sintomi hanno un effetto distruttivo.

Generalmente lo evitano e lo escludono dalle decisioni.

Oppure si servono di uno stile d’interazione allegro, pacificante e non impegnato, che attenua il più possibile la partecipazione del paziente.

Lo possono perfino spiare, o possono formare una rete di complice intesa, in modo da indurlo e un pò a “forzarlo” a ricevere un trattamento psicoterapeutico.

Il loro comportamento per quanto ben intenzionato e il loro atteggiamento di segretezza tuttavia inducono il paziente a sviluppare ulteriori sintomi paranoici e lo privano di spontanee reazioni correttive e di auto-ricerca di un aiuto esterno, fino ad arrivare alla conseguenza ultima di costruire intorno al paranoico una vera e propria comunità paranoica che a questo punto si costituisce su elementi di realtà.

Il comportamento paranoico

Si è visto che il comportamento paranoico, la paranoia e il pensiero paranoico possono essere attivati in modo sperimentale anche in professionisti senza tratti paranoici e con un alto grado di istruzione (a dimostrazione del fatto che il grado di istruzione non protegge dai sintomi descritti), ad esempio mediante esperienze comunitarie come quelle attuate negli Istituti della Tavistock Clinic.

In una situazione sperimentale che coinvolge un gruppo ampio, dai trenta ai cinquanta partecipanti sono seduti in cerchi concentrici che vanno da tre a cinque.

I membri della facoltà sono sparsi nei cerchi vestiti con abiti di lavoro, con una espressione impassibile e silenziosi.

Al gruppo è stato dato un compito ambiguo: quello di studiare il proprio comportamento.

All’interno di questa struttura d’esercizio senza leader, i partecipanti fanno affermazioni che non sono dirette a nessuno in particolare. A causa della disposizione in cui sono seduti, metà di essi hanno le spalle voltate e non possono vedere colui che parla.

Non si sviluppa dialogo.

Una dichiarazione può essere seguita da altre in un posto diverso.

In tal modo le comunicazioni non sono convalidate da reazioni di conferma o di dissenso da parte di altri.

Ripetutamente si nota la rapida apparizione di comportamenti singoli di sospetto e confusione sulla natura della realtà sperimentata, segue, come sempre all’interno di un gruppo con una comunicazione non chiara, la ricerca di un bersaglio,  l’identificazione di “capri espiatori” e infine la definizione di alcuni membri del gruppo come “persecutori onnipotenti”.

In questo contesto sperimentale

In questo contesto sperimentale, la paranoia e il “pensiero paranoico” invariabilmente si sviluppa ed è espresso anche da quei partecipanti che hanno invece sempre avuto una vita e una storia di sviluppo assai diverse e con un adeguato adattamento alla realtà.

Non sono un amante degli esperimenti, che in psicologia, oltretutto, non garantiscono nulla di scientifico dal momento che ogni persona è singola, particolare e non standardizzabile, però può essere utile osservare come nascono alcuni comportamenti che confermano che l’esperienza individuale dipende dalle caratteristiche idiosincratiche dell’individuo nel contesto di vita in cui si trova ad operare in un dato periodo della sua vita.

In pratica, in determinate condizione e contesti, la paranoia si sviluppa anche in soggetti a basso rischio.

Quindi in questa struttura teorica, in particolare rispetto alla paranoia non si ignora l’individuo.

Il presente di un soggetto è formato dal suo passato e dalle condizioni in cui vive.

Parte del suo passato sarà presente, contenuto e modificato dalle attuali interazioni.

Sia il suo passato che le sue qualità distintive sono parte del contesto sociale, che influenzano nella stessa misura in cui il contesto influisce sull’individuo.

Ciò che emerge è il rispetto per l’individuo, per la persona nel suo contesto, il tenere in considerazione non solo le caratteristiche inerenti o acquisite del soggetto ma anche la sua interazione nel presente.

L’uomo è dotato di memoria; è il prodotto del suo passato. Allo stesso tempo, le sue interazioni con le situazioni in cui vive sostengono, qualificano o modificano la sua esperienza e il suo comportamento futuro.

La persona che ha sintomi paranoici

La persona che ha sintomi paranoici, come di qualsiasi altro sintomo che ne impedisce la spontanea espressione di tutte le sue potenzialità è una persona che soffre e ha sofferto, la sua storia di vita lo ha portato a trovare forme di adattamento che si rivelano poi essere la fonte del sintomo.

Mi trovo spesso a pensare, quando ascolto queste storie, che anche io probabilmente, nelle stesse condizioni avrei sviluppato quel sintomo.

Tuttavia non è utile una comprensione intellettuale del disturbo, solo quello non serve, e può essere, anzi, fonte di ulteriore frustrazione.

Quello che è utile in questi casi è cercare di uscire dal cerchio chiuso della coazione a ripetere inserendo un elemento umano, trovare una forma nuova e “sana” di comunicazione.

Una delle possibilità è quella di sperimentare una nuova modalità di relazione con un terapeuta, che si pone fuori dalla rete relazionale e sociale in cui la persona è inserita e che garantisca appunto il rispetto e la comprensione della propria esperienza e dei propri valori e orientamenti personali, che garantisca la riservatezza, il rispetto e la comprensione della propria storia.

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Il presente post ha il solo scopo di divulgare il libro da cui è stato tratto senza scopo di lucro.

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Tratto da:
Minuchin S. – Famiglie e terapia della famiglia – Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini
Immagine: Michelangelo, Cappella Sistina

Tags: paranoia, paranoia e sistemi relazionali

SULLIVAN FOTO

HERBERT STACK SULLIVAN – IL CAMPO RELAZIONALE

Herbert Stack Sullivan 

Psichiatra e psicanalista statunitense (1892 – 1949) può essere considerato, insieme a K. Horney e a E. Fromm, il massimo esponente della tendenza culturalista neo-freudiana negli USA.
Ebbe una grande influenza nell’ambiente psicoanalitico specie per l’idea che egli aveva del disturbo mentale e per il suo modo di impostare il rapporto con il paziente

Il pensiero

Sullivan sosteneva che tutti i comportamenti umani sono la somma delle varie motivazioni che influiscono sulla persona in ogni momento specifico. Il senso della scelta è un riflesso nella coscienza della convergenza di vari motivi che si riconducono ai bisogni di soddisfacimento e di sicurezza.
Dunque il suo contributo sulle tecniche del colloquio clinico, in cui delineava un approccio meno nosografico e più interpersonale rispetto ai modelli classici, ha avuto molta influenza nella psichiatria statunitense degli anni tra il ’40 e ’50.

Il colloquio

Nel suo approccio, il colloquio diviene uno strumento non solo diagnostico, ma anche di analisi delle dinamiche relazionali usate dal soggetto, di cui questi non è sufficientemente consapevole.
Il superamento di tali “disattenzioni selettive” nei confronti dei propri stessi processi relazionali diviene quindi parte del processo terapeutico.
Nel 1954, come psicologo, psicologo clinico e psicoterapeuta, nel delineare lo sviluppo della psicologia individuale pose l’accento sui bisogni di sicurezza e sui vissuti di angoscia, interpretati come risposta alla frustrazione dei bisogni primari.

Il campo relazionale

Nell’analisi della personalità operò uno spostamento dai rapporti e conflitti intrapsichici alle dinamiche interpersonali, formulando una teoria basata sulla nozione di “campo relazionale”, secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come “personificazioni” interiori anche in situazioni di isolamento.

Quindi in quest’ottica il rapporto terapeuta-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato, ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale, il terapeuta, sviluppa un maggiore atteggiamento empatico riconoscendo l’importanza delle determinanti ambientali e sociali e si propone di individuare insieme al paziente, con rispetto e ascolto, gli eventi scatenanti del malessere e le motivazioni dell’isolamento per comprendere i vissuti correlati e il significato che questi eventi assumono nella narrazione di vita dello stesso.

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Fonte:
U. Galimberti – Psicologia – Garzanti
it.wikipedia.org/wiki/Harry_Sullivan
Tag: Herbert Stack Sullivanblu psicologo milano