Le forme di abuso e di maltrattamento possono essere considerate da diversi punti di vista. In questo post vengono presi in considerazione quegli abusi costanti e striscianti, insiti in forme di comunicazioni e di relazioni tossiche, malsane e malate.
Vengono quindi prese in considerazione in modo primario le forme di abuso psicologico e solo marginalmente si parlerà di quelle forme che sfociano, in minaccia o atto, di abuso fisico o sessuale.
In questa ottica si considera fondamentale separare gli atti posti in essere con cosciente e consapevole volontà di causare un danno psicologico a un altro essere umano da quegli atti, e sono la maggior parte, che sono agiti in modo inconsapevole o inconscio ma che esitano comunque e sempre in una condizione di malessere in chi li subisce e, pur in maniera diversa, anche in chi li commette.
Fernandez definisce l’abuso come “azione violenta che, condotta con intenzione e direzionalità, cerca di causare danno a una persona”.
In realtà non è sempre vero che l’abusante abbia sempre una consapevolezza intenzionale e come fine principale quello di procurare un danno (che comunque provoca e di cui sottovaluta le conseguenze), sembra però che a volte la spinta emotivo-affettiva si organizzi attorno a:
– sentimenti di onnipotenza;
– bisogno di sottomettere ed anche annichilire l’altro;
– bisogno di controllo assoluto sulla vita dell’altro;
– scaricare un desiderio distorto, caratterizzato cioè da una deformazione o deviazione dello stimolo rivolto a procurare un danno;
– comportamenti appresi nella sfera famigliare, subiti prima e riproposti poi.
Queste osservazioni riportano al quesito non risolto se si tratti di un atto istintivo che ha un valore in sé oppure se, al contrario, sia il risultato di un retroscena ampiamente psicopatologico (naturalmente ci sono i casi, che vanno chiariti, nei quali si può riscontrare una vera volontà di delinquere) che non è argomento di questo post.
Quando l’abuso si riferisce a un danno provocato, l’uso della parola non è corretto per cui bisognerebbe parlare di violenza che può essere agita sia sul corpo che sulla organizzazione psico-affettiva.
Quando l’abuso viene perpetrato involontariamente e con modalità velate, oscure o inconsce tutto diventa più complesso in quanto l’attore, e spesso la persona che subisce, non percepiscono la gravità delle conseguenze psicologiche che provocano questi atteggiamenti di continua e costante svalutazione.
La violenza psicologica si mette in atto provocando continuamente la vittima, con offese, denigrando, con il disprezzo e con l’umiliazione ma anche con il sarcasmo. Inculcando nella sua mente il seme dell’ossessione e dell’insicurezza, limitando la vittima della sua libertà o della sua intimità. Mentendo o mettendo l’accento sugli aspetti della realtà più svalutanti, con l’esclusione dal potere decisionale e spesso con l’isolamento.
In alcuni casi si possono rilevare modalità disfunzionali che coinvolgono interi sistemi familiari nella attuazione inconscia di comportamenti prevaricanti e non rispettosi dei confini e dei limiti di un singolo componente del nucleo familiare che, spesso, se segnala il proprio senso di disagio viene escluso o allontanato dal nucleo. Allontanarsi da un nucleo disfunzionale è a volte inevitabile ma nei casi di esclusione subita, senza aver compreso, anche a livello solo razionale, le dinamiche sottostanti, questo viene vissuto con sensi di colpa (una colpa senza nome) e non integrato in una visione di Sè e della propria biografia dotata di senso.
Dobbiamo quindi parlare di un trauma che riguarda per lo più la sfera psico-mentale e che coinvolge sia la potenzialità dell’attore che quella di chi subisce il trauma.
Una azione può risultare più traumatica se agita in pubblico, piuttosto che in privato, anche perché può essere più incisiva se suscita sensi di vergogna.
Può diventare traumatico non solo un atteggiamento attivo, ma anche una negligenza, una mancanza ed anche un semplice allontanarsi, un atteggiamento, una modalità anche non verbale.
L’azione traumatica può diventare tale se il soggetto si trova impreparato (da una azione imprevedibile) o in una condizione anche temporanea di debolezza (per es. un trauma verbale in una persona anziana, temporaneamente indifesa perché depressa o agitata per altri motivi) o incapace di sopportare l’ira, il sarcasmo o la fredda indifferenza dell’attore.
Anche un eccesso di accudimento può esitare nelle conseguenze di un abuso. Un dare continuamente senza lasciare il tempo di formulare e a volte nemmeno di pensare il bisogno. Saturare una richiesta prima che venga espressa. Soddisfare dei bisogni o prevenirli porta a soffocare la domanda e quindi il soggetto non può che allontanarsi o protestare per far comprendere, magari per vie negative la vera domanda.
In forma leggera la situazione è probabilmente più frequente di quanto si pensi ed è ampiamente sottovalutata perchè non causa evidenti problemi fisici immediati. La manifestazione più severa dell’ipercura è la sindrome di Münchausen per procura, in questo caso si attribuisce, generalmente al bambino, sintomi e malattie di cui non soffre realmente, ma che sono piuttosto il frutto di una convinzione distorta, radicata nello stato di salute fisica e psicologica del genitore che trasferisce su di lui (per procura) il proprio stato e la propria convinzione di malattia.
Il trauma non produce generalmente danni fisici, e quindi visibili, immediati (se si eccettuano i momentanei stati d’ansia), ma successivamente si possono provocare:
– perdita dell’equilibrio psico-mentale;
– diminuzione del senso di sicurezza o condizioni di paralizzante insicurezza;
– paura di aver perso le proprie capacità mentali;
– sensazione di incapacità od insufficienza ad assolvere i propri compiti;
– convinzione di essere la causa di questo accadimento;
– diminuzione dell’autostima e perdita del senso di auto-soddisfazione;
– sentirsi senza via d’uscita,
– ridurre l’empatia e la dimensione dell’intimità.
– sentimenti di vergogna e colpevolezza
– ritiro sociale e abuso di sostanze
La violenza verbale può assumere anche aspetti di abuso se:
– svalorizza l’altro nelle sue capacità psico-fisiche, attitudini, potenzialità;
– blocca o devia gli argomenti dell’altro;
– ribatte ogni giustificazione;
– irride o minimizza i valori dell’altro;
– giudica e critica in maniera incontrovertibile, rifiutando ogni tipo di dialogo;
– confonde l’altro con argomentazioni ossessive;
– erode la fiducia e la determinazione dell’altro;
– insulta o alza smodatamente la voce;
– minaccia di passare alla compulsività fisica;
– approfitta di leggere dimenticanze, usando anche la manipolazione.
Le caratteristiche della violenza riguardano:
– produrre risposte d’angoscia: questa si definisce come risposta emotiva intensa, automatica e inconscia;
– incutere paura, che è una risposta mediata (non automatica), elaborata da processi personali consci ed inconsci e che, quindi, ha le caratteristiche che l’assimilano ai sentimenti;
– provocare uno stato di terrore nel quale è implicito un senso di impotenza totale che nei casi più gravi può far sentire di essere di fronte ad una esperienza catastrofica o ad una morte inevitabile.
A volte queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione diversa si presenta invece quando si è esposti a queste forme di legami per lungo tempo e a poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale sopratutto per l’infanzia, che è il periodo in cui i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo – quindi quello che accade a loro è, e diventa, per così dire, la legge dell’universo e la propria visione del mondo. E’ dunque chiaro che in questi casi non si tratta di un trauma isolato; siamo piuttosto di fronte a un modello ben determinato di interazione. Si può meglio capire la qualità interattiva di questo modello se si tiene presente che il doppio legame nell’adulto non può essere – per la natura della comunicazione umana – un fenomeno unidirezionale.
L’indice dell’importanza della violenza tiene poi conto del soggetto verso il quale l’azione viene agita, proprio perché, per esempio, un bambino o un anziano sono più vulnerabili di un adulto e un disabile ha meno capacità di difendersi.
Inoltre, le percezioni personali riguardo alla violenza si legano inesorabilmente alla percezione del livello di potenzialità aggressiva dell’attore sia per sé che per il ruolo che lo caratterizza e, quindi, sulle possibili ritorsioni in caso di autodifesa, di reazioni di contenimento o aggressive a loro volta.
Spesso si assiste a una notevole sottovalutazione del fatto che persone con problematiche personali ed emotive non risolte, e con scarse possibilità di risolverle da sole, producano comportamenti non empatici e non rispettosi dei limiti dell’altro e che questi possono determinare una condizione di abuso e provocare effetti intensi e duraturi negli anni che vengono a volte anche tramandati tra generazioni. L’abuso e il maltrattamento sono fenomeni che non si risolvono con il semplice passare del tempo. Si cronicizzano. E’ necessario superare la paura anche solo di pensarle queste situazioni, evitare di negare che il problema esista o che si possa risolvere da solo.
Anche perchè a volte sono sostenute da persone che credono di possedere una presunta superiorità “morale”.
E’ necessario infine sottolineare che non tutto il dolore è patologia. Spesso il dolore, anzi l’essenza del dolore, è non conoscenza di sé, della propria biografia e delle dinamiche relazionali e comportamentali che fanno parte della propria storia di vita.
Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388Fonte:
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Immagine: Maurizio Bottarelli, Spiaggia nera a Mokau (particolare), 2007
La parola d’origine tedesca Gestalttradotta in passato in modo inadeguato con il termine “forma”, corrisponde invece al significato di “struttura unitaria”, “configurazione complessiva”, termini questi più adeguati in quanto implicano anche un aspetto di organizzazione della forma percepita.
La terapia della Gestalt si inserisce tra le terapie umanistiche e nasce a New York nel 1950 circa dalle intuizioni di Friedrich Perls, psicoanalista tedesco, emigrato negli anni quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti.
La vita di Perls è stata una sintesi continuamente rinnovata e rivitalizzata da un insieme vastissimo di esperienze umane sempre nuove e sempre diverse.
La stessa cosa possiamo dire della sua terapia in quanto sarebbe molto difficile precisare quanto questo suo approccio terapeutico deve a questa o a quella filosofia a questa o a quella scuola.
Inoltre le tecniche che sono nel tempo diventate celebri e utilizzate da altre teorie, oltre che in terapia della Gestalt, come la tecnica della sedia vuota, hanno portato la terapia della Gestalt ad essere identificata a volte con approssimazione con le sue tecniche e deprivata del suo imprescindibile sistema filosofico di riferimento.
L’apparente purezza della sua pratica clinica basata sul quì e ora e sulla immediatezza, in alcuni casi sorprendente degli esiti, sembrano permettere di eluderne gli assunti teorici che si possono invece ritrovare come base per la terapia della Gestalt, nella Filosofia Esistenziale, nella Fenomenologia e nella Semantica.
Nei suoi scritti sulla terapia della Gestalt tuttavia Perls che privilegiava uno stile e personale e creativo e che aveva una visione fondamentalmente eclettica e pluralista della terapia, pur citando le persone che hanno avuto influenza sul suo pensiero, non si è mai preoccupato di precisare che cosa esattamente aveva preso dall’uno o dall’altro.
E’ più facile quindi inquadrare la terapia della Gestalt a posteriori, inquadrandola storicamente e cominciando con il considerarla una parte importante della Psicologia Umanistica che si rifà alle concezioni di Maslow, Carl Rogers, Rollo May, ma che in realtà è diventata il polo di aggregazione di idee e di correnti che hanno, rispetto alla Psicoanalisi classica, una presa di distanza che comunque non è mai contrapposizione frontale ma piuttosto esigenza di integrazione, superamento in una concezione più vasta.
Storicamente negli anni ’50 – ’60 l’orientamento è di tipo psicodinamico: il disturbo psichico è considerato in termini biomedici anche per le innovazioni farmacologiche del momento. Contemporaneamente è riconosciuta l’inadeguatezza dei manicomi.
In questo periodo nascono nuovi modelli di riferimento; sociogenetici, comportamentali, umanistici, esistenziali e nuove psicoterapie: brevi, familiari, di gruppo, con tecniche differenti legate ai differenti disturbi.
In generale vi è una maggiore attenzione alla storia familiare, evolutiva e agli schemi adattivi messi in atto e che sono considerati fondamentali anche nella terapia della Gestalt. Sullivan nel 1954 propone una teoria basata sulla nozione di campo relazionale secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come personificazioni interiori anche in situazioni di isolamento. In quest’ottica la terapia è demedicalizata, il rapporto medico-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale il terapeuta sviluppa un maggiore atteggiamento empatico e riconosce l’importanza delle determinanti ambientali e sociali.
L’elemento innovativo introdotto da Perls nella terapia della Gestalt fu di estrapolare i principi delle leggi di percezione applicandoli ad una dimensione esistenziale ed evolutiva dell’individuo e quindi alla possibilità di utilizzarli in psicoterapia.
Alcuni ricercatori della psicologia della percezione infatti come Koler e Wertheimer sostennero che c’è prima di tutto una formazione complessiva – che essi chiamano Gestalt (formazione della figura) – e che tutti gli altri pezzi isolati sono formazioni secondarie e formulano la teoria della Gestalt in questo modo:
“ci sono degli insiemi il cui comportamento non è determinato da quello dei loro singoli elementi ma dove i processi delle parti sono determinati dalla intrinseca natura del loro insieme. Questo è il significato della celebre frase il tutto è più della somma delle parti. Lo scopo della teoria della Gestalt è di determinare la natura di questi insiemi.”
La psicologia della Gestalt (vedi: “La psicologia della percezione“) identificava un processo percettivo unitario grazie al quale i singoli stimoli sarebbero integrati nel soggetto in una forma dotata di continuità.
Ciò che prima era stato considerato un processo passivo, il percepire, veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo e cioè come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali.Scrive E. Pessa: “i gestaltisti concepiscono il processo di soluzione di un problema alla stregua di un processo percettivo governato, per l’appunto, da leggi gestaltiche, leggi che fanno sì che si tenda a percepire una buona forma. Anche la situazione problematica, individuata da elementi e rapporti tra questi elementi, è una forma, che però è percepita come cattiva, mancante, incompleta: è proprio questo che fa sì che la situazione costituisca un problema in quanto tale. Le leggi della buona forma impongono, però, una ristrutturazione, nel senso del ristabilimento di una struttura completa, chiusa, ottimale, che costituisce di per sé la soluzione stessa del problema. L’atto di ristrutturazione costituisce il celebre insight, già introdotto da Kohler. Si tratta di una concezione dell’apprendimento molto qualitativa e difficile da verificare sperimentalmente. Tuttavia ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il ruolo dei fattori di tipo globale nei processi di apprendimento. In altri termini, essa asserisce che, accanto alle singole associazioni tra stimoli e risposte e sovraordinato rispetto a queste, esiste un campo, esattamente analogo ai campi di forze di cui parla la fisica, che determina globalmente la dinamica del processo di apprendimento e le storie delle varie connessioni stimolo-risposta. L’evoluzione di questo campo è governata da leggi che tendono al mantenimento di un opportuno equilibrio globale e, nel caso in cui esso sia turbato, fanno insorgere delle forze che provvedono al suo ristabilimento”
L’indagine psicologica è quindi essenzialmente diretta a rintracciare le leggi di questa strutturazione e che sono poi le leggi che regolano il nostro contatto con il mondo. Un altro aspetto fondamentale della psicologia della Gestalt, poi ripreso dalla terapia della Gestalt, è quello dell’organizzazione del campo percettivo in figura e sfondo, che fu introdotta da Edgar Rubin e che mise in risalto come la figura emergente è generalmente contraddistinta da contorni definiti che rappresentano il focus dell’attenzione ed è caricata di una maggiore energia di relazione con l’osservatore. Lo sfondo, al contrario, rappresenta il resto del campo visivo ed è caratterizzato da attributi inversi a quelli menzionati per la figura emergente. E’ interessante notare come allo stesso Rubin non sfugga l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato. Di qui la tendenza,non casuale, a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione.
K. Lewin attuò inoltre un importante esperimento di memoria che sarà poi ripreso come fondamento per l’impianto teorico della terapia della Gestalt e che darà origine ad alcune tecniche per risolvere quelli che sono definiti “unfinished business” e cioè i “compiti non conclusi”.
Scrive Perls: “in un esperimento Lewin diede ad un certo numero di persone dei problemi da risolvere. Non era stato loro detto che era un test di memoria, ma avevano l’impressione che fosse eseguito un test di intelligenza. Il giorno dopo fu loro chiesto di scrivere i problemi che ricordavano ed erano proprio i problemi non risolti ad essere ricordati di più di quelli che erano stati risolti”.
E’ come se i compiti non conclusi e i problemi non risolti creino una sorta di interferenza e di frustrazione e fino a quando il compito o il blocco non è stato superato, concluso o risolto la mente non si libera del pensiero e i comportamenti si ripetono nel tentativo di superare il blocco o di risolverlo, a volte la persona non si rende conto in modo cosciente di questo blocco ed è per questo che a volte è utile l’incontro con un terapeuta.
La parola “soluzione”, nel linguaggio della terapia della Gestalt, indica la scomparsa e la dissolvenza di una situazione confusa.
Quindi una situazione non conclusa polarizza una carica di energia destinata a completarla rendendo la stessa energia non più disponibile per altri tipi di esperienza. Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della situazione stessa anche in luoghi e tempi successivi interferendo quindi con la possibilità dell’individuo di entrare efficacemente in contatto con i contesti cognitivi, emotivi e sociali in cui di volta in volta verrà a trovarsi.
Nella terapia della Gestalt di Perls questo concetto si dilata per definire una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. La relazione è determinata da un bisogno del soggetto e mira alla soddisfazione di questo bisogno. Una volta soddisfatto il bisogno la relazione cessa e si dice che la Gestalt è terminata. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o semplicemente un qualsiasi bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento.
Perls, appropriandosi in termini operativi dei concetti esposti sopra insiste soprattutto sul fenomeno della Gestalt non terminata come spiegazione del disagio psichico e sul concetto di integrazione come vera e radicale modalità terapeutica.
Scrive P. Baumgardner: “la terapia della Gestalt è un modo di occuparsi di un altro essere umano per dagli la possibilità di essere sè stesso, saldamente ancorato nel potere che lo costituisce, la terapia della Gestalt è una terapia esistenziale e si occupa quindi dei problemi creati dalla nostra paura di assumerci le responsabilità di ciò che siamo e di ciò che facciamo. E’ stato infatti sviluppato un procedimento terapeutico che, nella teoria della terapia della Gestalt e nella sua pratica, evita l’uso dei concetti. Egli distingue il procedimento terapeutico da quello del parlare intorno a qualcosa e delle problematiche morali lasciandoci lavorare con i dati, con i comportamenti osservabili che costituiscono il fenomeno invece che con ipotesi razionali. Queste differenziazioni sono di primaria importanza nella terapia della Gestalt, che si occupa quindi e si serve di ciò di cui abbiamo esperienza piuttosto che di ciò che è frutto del nostro pensiero. Il terapeuta della Gestalt deve perciò creare una situazione particolare: deve diventare il catalizzatore che facilita la presa di coscienza da parte del paziente riguardo a ciò che c’è nel presente, frustrandone i vari tentativi di fuga. Questa necessaria frustrazione, se non sapientemente dosata, può risultare, per alcuni tipi psicologici, particolarmente fastidiosa e può esitare in drop-out terapeutici.
Pears introduce, come abbiamo visto, come base del suo lavoro teorico la parola Gestalt e ne considera due tipi: la Gestalt completa o intera e la Gestalt in formazione. Parlando così della Gestalt come dell’unità finale di esperienza, esperienza riguardante prevalentemente la consapevolezza. A questo proposito le nozioni basilari che utilizzeremo sono quelle di bisogno e di situazione incompiuta e delle interrelazioni tra le due. Se le esigenze dell’organismo sono soddisfatte, attraverso il dare e ricevere dall’ambiente, la Gestalt è completa e la situazione compiuta. La consapevolezza del bisogno diminuisce, scompare ed emergono altri bisogni. L’organismo è pronto ad affrontare un’altra situazione incompiuta con le energie connesse alle nuove esigenze emergenti.
Lo scopo della terapia della Gestalt è quello di recuperare le parti perdute della personalità. Le nostre esperienze e le nostre funzioni rifiutate possono essere recuperate. Questo procedimento di riprendere, reintegrare e sperimentare di nuovo è il campo della psicoterapia. Il terapeuta viene coinvolto, insieme al paziente, nel processo di riappropriazione di tali sensazioni e comportamenti abbandonati fino a che il paziente comincia, continuando poi per proprio conto, ad affermare sè stesso e ad agire nei termini della persona che vuole essere realmente.
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https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2017/07/gestalt-bordo.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2017-07-18 08:08:272020-09-30 13:41:55TERAPIA DELLA GESTALT – La somma delle parti
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