“Racamier diceva – con amarezza – che ci sono infiniti modi per non amare il proprio figlio (immaginarsi poi l’amare gli altri) e con questo intendeva che ci sono innumerevoli tipi di relazioni basati sulla prevaricazione e sul nutrirsi dell’altro che vengono caoticamente chiamati amore.
Anche amare troppo non è amare.
Anche aspettarsi sempre di essere amati troppo non è amore.
Ovviamente dovremo provare a concordare su cosa significhi amare.
Io proporrei di pensare l’amare come ad una disposizione di apertura e di rispetto verso l’altro che porta – si spera – ad un incontro autentico e di reciproca scoperta e rispetto. Possiamo fingere di essere aperti, possiamo anche pensare di essere buoni e di non poter che amare la persona che abbiamo di fronte. Ma questa finzione si fonda sulla paura che noi abbiamo di noi stessi e dell’altro al punto che l’unica via è renderlo più simile a noi e rendere noi stessi simili a santi.
Ritengo che l’unico modo di scoprire cosa significhi amare sia essere stato amato o trovare qualcuno che ci guardi con disponibilità e che si disponga a capire il nostro mondo, senza giudizio, senza pregiudizio e sopratutto senza fretta. Senza manzoniana compassione ma con interesse.
Se siamo fortunati incontriamo questo sguardo nei genitori ma non è mai tardi per fare questa esperienza radicale. E’ una esperienza che si può esperire anche da adulti ed è fortemente auspicabile che ciascuno possa incontrare un’altra persona che lo sappia amare nel corso della sua vita.
Ma se crediamo di poter insegnare ad una persona ad amare in realtà non lo stiamo amando affatto, poichè non ci fidiamo di lui, non riteniamo che abbia in sè la potenzialità all’incontro. Il più delle volte avremo solo fretta che ci assomigli.
L’amore si offre, si incontra, semmai si mostra, ma non credo si possa insegnare ne tantomeno possa essere materia di addestramento.
In questo senso concordo sul fatto che se incontriamo una creatura che non ha mai conosciuto uno sguardo d’amore molti di noi sentiranno (fortunatamente) il desiderio di proporgli un’alternativa. Ma l’alternativa può essere solo lo sguardo di un amore “sano e rispettoso”, non intrusivo, non invadente e dalla giusta distanza. Deve essere un’alternativa di sostanza, di essenza, non solo di gesti appresi.
Possiamo fingere qualsiasi esperienza ma spesso viviamo, e ripetiamo, solo ciò che è successo anche a noi.
L’altro sente sempre la differenza”.
* Giorgio Maria Ferlini, Psichiatra e Psicoterapeuta, è stato Ordinario alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova e Presidente della Scuola in Psicoterapia e Fenomenologia “Aretusa”.
Giorgio Maria Ferlini. Parte prima: https://www.youtube.com/watch?v=th5d-5DhyMc
Giorgio Maria Ferlini. Parte seconda: https://www.youtube.com/watch?v=W3NGW9jkQIY
Le forme di abuso e di maltrattamento possono essere considerate da diversi punti di vista. In questo post vengono presi in considerazione quegli abusi costanti e striscianti, insiti in forme di comunicazioni e di relazioni tossiche, malsane e malate.
Vengono quindi prese in considerazione in modo primario le forme di abuso psicologico e solo marginalmente si parlerà di quelle forme che sfociano, in minaccia o atto, di abuso fisico o sessuale.
In questa ottica si considera fondamentale separare gli atti posti in essere con cosciente e consapevole volontà di causare un danno psicologico a un altro essere umano da quegli atti, e sono la maggior parte, che sono agiti in modo inconsapevole o inconscio ma che esitano comunque e sempre in una condizione di malessere in chi li subisce e, pur in maniera diversa, anche in chi li commette.
Fernandez definisce l’abuso come “azione violenta che, condotta con intenzione e direzionalità, cerca di causare danno a una persona”.
In realtà non è sempre vero che l’abusante abbia sempre una consapevolezza intenzionale e come fine principale quello di procurare un danno (che comunque provoca e di cui sottovaluta le conseguenze), sembra però che a volte la spinta emotivo-affettiva si organizzi attorno a:
– sentimenti di onnipotenza;
– bisogno di sottomettere ed anche annichilire l’altro;
– bisogno di controllo assoluto sulla vita dell’altro;
– scaricare un desiderio distorto, caratterizzato cioè da una deformazione o deviazione dello stimolo rivolto a procurare un danno;
– comportamenti appresi nella sfera famigliare, subiti prima e riproposti poi.
Queste osservazioni riportano al quesito non risolto se si tratti di un atto istintivo che ha un valore in sé oppure se, al contrario, sia il risultato di un retroscena ampiamente psicopatologico (naturalmente ci sono i casi, che vanno chiariti, nei quali si può riscontrare una vera volontà di delinquere) che non è argomento di questo post.
Quando l’abuso si riferisce a un danno provocato, l’uso della parola non è corretto per cui bisognerebbe parlare di violenza che può essere agita sia sul corpo che sulla organizzazione psico-affettiva.
Quando l’abuso viene perpetrato involontariamente e con modalità velate, oscure o inconsce tutto diventa più complesso in quanto l’attore, e spesso la persona che subisce, non percepiscono la gravità delle conseguenze psicologiche che provocano questi atteggiamenti di continua e costante svalutazione.
La violenza psicologica si mette in atto provocando continuamente la vittima, con offese, denigrando, con il disprezzo e con l’umiliazione ma anche con il sarcasmo. Inculcando nella sua mente il seme dell’ossessione e dell’insicurezza, limitando la vittima della sua libertà o della sua intimità. Mentendo o mettendo l’accento sugli aspetti della realtà più svalutanti, con l’esclusione dal potere decisionale e spesso con l’isolamento.
In alcuni casi si possono rilevare modalità disfunzionali che coinvolgono interi sistemi familiari nella attuazione inconscia di comportamenti prevaricanti e non rispettosi dei confini e dei limiti di un singolo componente del nucleo familiare che, spesso, se segnala il proprio senso di disagio viene escluso o allontanato dal nucleo. Allontanarsi da un nucleo disfunzionale è a volte inevitabile ma nei casi di esclusione subita, senza aver compreso, anche a livello solo razionale, le dinamiche sottostanti, questo viene vissuto con sensi di colpa (una colpa senza nome) e non integrato in una visione di Sè e della propria biografia dotata di senso.
Dobbiamo quindi parlare di un trauma che riguarda per lo più la sfera psico-mentale e che coinvolge sia la potenzialità dell’attore che quella di chi subisce il trauma.
Una azione può risultare più traumatica se agita in pubblico, piuttosto che in privato, anche perché può essere più incisiva se suscita sensi di vergogna.
Può diventare traumatico non solo un atteggiamento attivo, ma anche una negligenza, una mancanza ed anche un semplice allontanarsi, un atteggiamento, una modalità anche non verbale.
L’azione traumatica può diventare tale se il soggetto si trova impreparato (da una azione imprevedibile) o in una condizione anche temporanea di debolezza (per es. un trauma verbale in una persona anziana, temporaneamente indifesa perché depressa o agitata per altri motivi) o incapace di sopportare l’ira, il sarcasmo o la fredda indifferenza dell’attore.
Anche un eccesso di accudimento può esitare nelle conseguenze di un abuso. Un dare continuamente senza lasciare il tempo di formulare e a volte nemmeno di pensare il bisogno. Saturare una richiesta prima che venga espressa. Soddisfare dei bisogni o prevenirli porta a soffocare la domanda e quindi il soggetto non può che allontanarsi o protestare per far comprendere, magari per vie negative la vera domanda.
In forma leggera la situazione è probabilmente più frequente di quanto si pensi ed è ampiamente sottovalutata perchè non causa evidenti problemi fisici immediati. La manifestazione più severa dell’ipercura è la sindrome di Münchausen per procura, in questo caso si attribuisce, generalmente al bambino, sintomi e malattie di cui non soffre realmente, ma che sono piuttosto il frutto di una convinzione distorta, radicata nello stato di salute fisica e psicologica del genitore che trasferisce su di lui (per procura) il proprio stato e la propria convinzione di malattia.
Il trauma non produce generalmente danni fisici, e quindi visibili, immediati (se si eccettuano i momentanei stati d’ansia), ma successivamente si possono provocare:
– perdita dell’equilibrio psico-mentale;
– diminuzione del senso di sicurezza o condizioni di paralizzante insicurezza;
– paura di aver perso le proprie capacità mentali;
– sensazione di incapacità od insufficienza ad assolvere i propri compiti;
– convinzione di essere la causa di questo accadimento;
– diminuzione dell’autostima e perdita del senso di auto-soddisfazione;
– sentirsi senza via d’uscita,
– ridurre l’empatia e la dimensione dell’intimità.
– sentimenti di vergogna e colpevolezza
– ritiro sociale e abuso di sostanze
La violenza verbale può assumere anche aspetti di abuso se:
– svalorizza l’altro nelle sue capacità psico-fisiche, attitudini, potenzialità;
– blocca o devia gli argomenti dell’altro;
– ribatte ogni giustificazione;
– irride o minimizza i valori dell’altro;
– giudica e critica in maniera incontrovertibile, rifiutando ogni tipo di dialogo;
– confonde l’altro con argomentazioni ossessive;
– erode la fiducia e la determinazione dell’altro;
– insulta o alza smodatamente la voce;
– minaccia di passare alla compulsività fisica;
– approfitta di leggere dimenticanze, usando anche la manipolazione.
Le caratteristiche della violenza riguardano:
– produrre risposte d’angoscia: questa si definisce come risposta emotiva intensa, automatica e inconscia;
– incutere paura, che è una risposta mediata (non automatica), elaborata da processi personali consci ed inconsci e che, quindi, ha le caratteristiche che l’assimilano ai sentimenti;
– provocare uno stato di terrore nel quale è implicito un senso di impotenza totale che nei casi più gravi può far sentire di essere di fronte ad una esperienza catastrofica o ad una morte inevitabile.
A volte queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione diversa si presenta invece quando si è esposti a queste forme di legami per lungo tempo e a poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale sopratutto per l’infanzia, che è il periodo in cui i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo – quindi quello che accade a loro è, e diventa, per così dire, la legge dell’universo e la propria visione del mondo. E’ dunque chiaro che in questi casi non si tratta di un trauma isolato; siamo piuttosto di fronte a un modello ben determinato di interazione. Si può meglio capire la qualità interattiva di questo modello se si tiene presente che il doppio legame nell’adulto non può essere – per la natura della comunicazione umana – un fenomeno unidirezionale.
L’indice dell’importanza della violenza tiene poi conto del soggetto verso il quale l’azione viene agita, proprio perché, per esempio, un bambino o un anziano sono più vulnerabili di un adulto e un disabile ha meno capacità di difendersi.
Inoltre, le percezioni personali riguardo alla violenza si legano inesorabilmente alla percezione del livello di potenzialità aggressiva dell’attore sia per sé che per il ruolo che lo caratterizza e, quindi, sulle possibili ritorsioni in caso di autodifesa, di reazioni di contenimento o aggressive a loro volta.
Spesso si assiste a una notevole sottovalutazione del fatto che persone con problematiche personali ed emotive non risolte, e con scarse possibilità di risolverle da sole, producano comportamenti non empatici e non rispettosi dei limiti dell’altro e che questi possono determinare una condizione di abuso e provocare effetti intensi e duraturi negli anni che vengono a volte anche tramandati tra generazioni. L’abuso e il maltrattamento sono fenomeni che non si risolvono con il semplice passare del tempo. Si cronicizzano. E’ necessario superare la paura anche solo di pensarle queste situazioni, evitare di negare che il problema esista o che si possa risolvere da solo.
Anche perchè a volte sono sostenute da persone che credono di possedere una presunta superiorità “morale”.
E’ necessario infine sottolineare che non tutto il dolore è patologia. Spesso il dolore, anzi l’essenza del dolore, è non conoscenza di sé, della propria biografia e delle dinamiche relazionali e comportamentali che fanno parte della propria storia di vita.
Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388Fonte:
Romeo Lucioni, Ida Basso – Nel segno dell’abuso
http://www.slowmind.net/timologinews/abuso3.html
P. Watzlawick, J.H.Beavin, D. Jacson – Pragmatica della comunicazione umana
Umberto Galimberti: Il successo della filosofia – Feltrinelli Editore
http://www.feltrinellieditore.it/news/2003/10/23/umberto-galimberti-il-successo-della-filosofia-2200/
Immagine: Maurizio Bottarelli, Spiaggia nera a Mokau (particolare), 2007
“L’uomo che coltiva per tutta la vita la propria vendetta mantiene le sue ferite sempre aperte”.
F. Bacone
Con il termine rabbia si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto.
Con la rabbia si prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stessi.
La psicologia e le varie discipline neuroscientifiche hanno dimostrato che la rabbia nasce come reazione alla frustrazione.
Lo stesso Wilhelm Reich diceva che la rabbia è un’emozione secondaria rispetto alla frustrazione e la frustrazione, noi sappiamo, nasce dal dolore, nasce dal mancato soddisfacimento di un nostro desiderio, ovvero, nasce da una impossibilità di raggiungere il piacere. La rabbia, quindi, nasce dalla frustrazione ma maschera il dolore.
Gli stati d’animo di rabbia e vendetta, oltre che da ferite e delusioni, possono essere fatti precipitare da un conflitto narcisistico, cioè da un conflitto avente a che fare con il senso di colpa o da una esperienza di fallimento o di grave sbaglio con conseguenti sentimenti di perdita, in cui l’aggressività diretta contro il Sè viene secondariamente rivolta verso soggetti esterni.
Mentre il sentimento della rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività è totalmente e inutilmente distruttiva.
I pazienti non si liberano dalla rabbia e dalla sete di vendetta unicamente elaborando l’ostilità che è dentro di loro. Le radici della rabbia e della vendicatività saranno distrutte quando la terapia sarà riuscita a elaborare il dolore e l’angoscia da separazione situati nelle sfere più profonde, solo in quel momento il paziente potrà accostare i suoi simili in modo più flessibile e armonico.”
Bollati Boringhieri – Rabbia e vendicatività
Harold F. Searles – La psicodinamica della vendicatività
Bollati Boringhieri Charles W. Socarides – La vendicatività: il desiderio di pareggiare i conti Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhierihttp://www.crescita-personale.it/gestire-emozioni/1775/rabbia-psicologia/1560/a775/rabbia-psicologia/1560/a
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2018/08/GESTIONE-DELLA-RABBIA.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2018-07-18 07:14:492023-01-16 13:19:14LA GESTIONE DELLA RABBIA
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