“Rendi cosciente l’inconscio altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino” C. G. Jung
NELL’INCONSCIO DI JUNG
Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung, psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista e antropologo Svizzero, nasce nel 1875 in un piccolo paese della Turgovia.
Cresciuto in un contesto fortemente religioso (il padre era un pastore protestante), si trovò sin da giovane ad affrontare il conflitto tra tradizione etico-religiosa e spinta individuale all’indipendenza e al giudizio.
Questo conflitto adolescenziale e giovanile ha lasciato tracce nello sviluppo maturo del suo pensiero, sempre conteso tra l’affermazione irriducibile dell’esperienza personale, non inquadrabile in nessuna “scienza” e la formulazione di una teoria psicologica e antropologica con pretese universali e “oggettive”.
Fu in ogni caso l’ambiente culturale della sua infanzia e adolescenza a renderlo per molto tempo sensibile ai valori della tradizione storica e a motivarlo nella ricerca di costanti universali (come l’inconscio collettivo e gli Archetipi) sottese all’esperienza individuale.
La sua vita non fu scandita da grandi avvenimenti esteriori, ma contraddistinta da una eccezionale intensità interiore e una profonda ricerca, anche spirituale, non convenzionale.
Tuttavia Jung non scrisse mai un’esposizione riassuntiva ed esaustiva del suo pensiero e lasciò che altri lo facessero per lui.
Nucleo centrale del pensiero di Jung
Il nucleo centrale del pensiero di Jung risiede in una immagine dell’essere umano come natura fondamentalmente sana e come complesso di forze in espansione, contraddittorie e tensionali e quindi di difficile armonizzazione, e tuttavia, è un essere umano, costituzionalmente portatore di una sua capacità di compensazione, individuazione e di riequilibrio implicita nella sua realtà inconscia.
I problemi e i disagi psicologici
I problemi e i disagi psicologici che una persona può incontrare nel corso della sua vita per Jung non sono causati tanto dagli avvenimenti della prima infanzia, quanto dal conflitto attuale, cioè dall’incapacità dell’individuo di adattarsi alle richieste del suo ambiente o di trasformarlo in base alle sue esigenze evolutive.
Quando questo conflitto inconscio appare alla persona insuperabile il comportamento regredisce a forme più arcaiche di funzionamento.
In questo movimento a ritroso la persona incontra i nodi irrisolti della sua esperienza passata e ne rimane bloccata.
Ma non emerge nessun nucleo patogeno fino a quando questo movimento regressivo non viene a sollecitare ricordi latenti e comportamenti che ripropongono uno schema di modalità infantili.
Modalità più fantastiche che razionali.
La ricerca delle cause del disagio allora non si rivolge esclusivamente al passato, bensì al presente e al futuro del soggetto e al suo progetto di vita che sarà determinato da questi schemi inconsci dove passato presente e futuro sono la stessa cosa.
Secondo Jung occorre lasciarsi invadere dall’inconscio non per perdersi nella sua infinitezza ma per allargare i confini della nostra psiche in un divenire continuo.
Divenire che realizza la coesistenza dei contrari che ci dividono: razionalita e irrazionalità, introversione ed estroversione.
In ogni caso non è l’eliminazione dell’oscuro, dell’irrazionale il fine di una psicoterapia quanto la sua armonica integrazione.
Per Jung nel sintomo sono già insite le indicazioni terapeutiche in quanto, in un certo senso, già il sintomo è un tentativo di adattamento.
Si tratta, allora, nella cura, di assecondare le tendenze vitali del paziente, seguendolo per i sentieri, talvolta assai tortuosi, della sua autorealizzazione.
In questo compito lo psicoterapeuta non è solo un testimone distaccato bensì è partecipe, con il suo stesso inconscio, nel processo terapeutico.
“Veniamo influenzati non dai fatti ma dall’opinione che abbiamo dei fatti” Alfred Adler
Alfred Adler nacque a Vienna nel 1870. Psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista austriaco incontrò Freud nel 1902 e ne rimase fedele allievo solo per pochi anni e cioè fino al 1911.
“Già durante il periodo di collaborazione con Freud, Adler aveva intuito il ruolo che una presunta inferiorità organica poteva avere sulla vita dell’individuo, e da questa prima ipotesi nacque il concetto di pulsione aggressiva quale principio dell’energia psichica; per Adler, infatti, il movente istintuale principale è un’aggressività che compensi il senso di inferiorità nei confronti dei propri simili.
Nel 1911 abbandonò completamente la teoria freudiana degli istinti e della libido, proponendo che il riferimento psicoanalitico alla sessualità fosse inteso esclusivamente in senso metaforico.
La nevrosi maschile rappresenterebbe una “protesta virile”, una sovracompensazione nei confronti di un sentimento di inadeguatezza.
Gli individui si sentono inadeguati e imperfetti, e per compensazione si autoingannano creandosi uno “stile di vita” che costituisce essenzialmente una modalità esistenziale tesa al raggiungimento di una superiorità nei confronti degli altri.
La psicoterapia, quindi, consiste in una libera discussione su di un piano paritetico tra lo psicoterapeuta e il paziente con l’intento di individuare il movimento inconscio in cui il paziente ha “organizzato” questo autoinganno da cui discende uno stile di vita fittizzio e nevrotico. Adler diede molta importanza al contesto ambientale e all’interesse per i problemi sociali quali elementi per la crescita sana dell’individuo.
Per le sue idee sociali e per la sua motivata convinzione che le difficoltà psicologiche dell’individuo risalgano, in ultima analisi, a fattori storici e culturali, egli viene considerato il precursore delle revisioni “sociali” della psicoanalisi.”*
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2019/05/alfred-adler-immagine.jpg320799Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2019-05-18 08:37:152020-10-27 13:59:16LA PSICOLOGIA DI ALFRED ADLER
Cosa sappiamo del desiderio umano?
L’opinione prevalente nel senso comune è che l’essere umano scelga in modo completamente autonomo di orientare il suo desiderio su un oggetto. Questo spiega la nascita del desiderio con il fatto che ogni oggetto possiede un valore che lo rende desiderabile in sè.
Questa visione lineare del desiderio che collega direttamente il soggetto all’oggetto è di una semplicità evidente. L’essere umano sembrerebbe però essere intrinsecamente più complesso e questa teoria non spiega fenomeni come l’invidia o la gelosia.
In questo post è mia intenzione proporre, in modo anche casuale, arbitrario e semplificato, come alcuni studiosi e autori di ambiti diversi hanno teorizzato le logiche del desiderio.
Lacan colloca il desiderio nella mancanza. La mancanza caratterizza ogni itinerario che dal bisogno conduce al desiderio. Il desiderio inconscio è ciò che si oppone alla mancanza. Non si può nominare, ovvero non c’è un significante, una parola che può definirlo totalmente, ma rimanda sempre a qualcos’altro. Altro, non inteso come uomo ma come luogo; altro da sè. Non è desiderio di qualcosa di materiale; è innanzitutto desiderio del desiderio dell’altro, desiderio di ciò che l’altro desidera, desiderio di essere desiderato dall’altro, di essere riconosciuto dall’Altro.
Il desiderio è anche una metafora. Si esprime in modo costruttivo nelle sembianze di una passione, di un ideale, di una ricerca che dia senso, che offra consistenza alla propria vita. E’ inconscio, è una spinta: è un movimento che orienta la propria esistenza. E’ un motore ed è ciò che dà vitalità al soggetto. In senso negativo è negazione di parti di sè e origine di conflitti intrapsichici e sociali.
Nella terapia della Gestalt di Perls la logica del desiderio si colloca all’interno di una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. E’ quindi ancora determinato da un bisogno e ha come scopo la sua soddisfazione. Una volta soddisfatto il bisogno il desiderio è appagato e ne emergerà uno nuovo. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o un qualsiasi altro bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento e in alcuni casi seleziona elementi della realtà distorcendola.
Alcuni recenti studi sull’empatia e sui “neuroni specchio” invece sostengono che nel comportamento umano si riscontra una dimensione imitativa, cioè una volontà di imitare il proprio simile.
Tale atteggiamento è indispensabile all’uomo per diventare tale, per apprendere a parlare, a camminare, a conformarsi a delle regole e a integrarsi in una cultura.
Ed è sempre per imitazione che desideriamo ciò che anche un altro desidera.
Già Girard sosteneva che non esiste un vero desiderio individuale, ma solo un desiderio mediato, che imita il desiderio di un’altro che ha suggerito l’oggetto da possedere.
Tutto ciò significa che il rapporto tra soggetto e oggetto non è diretto e lineare, ma è sempre triangolare: soggetto, modello, oggetto desiderato.
Al di là dell’oggetto, è il modello (che Girard chiama «il mediatore») che attira il desiderio. In particolare, a certi stadi di intensità, il soggetto ambisce direttamente all’essere del modello.
Focalizzare il proprio desiderio su un modello, è già riconoscergli un valore che si pensa di non possedere ed equivale a constatare la propria insufficienza di essere umano e dare a sè stessi un giudizio di valore.
Così si istituisce la mediazione del modello ed una prima trasfigurazione dell’oggetto. Ad esempio, quell’automobile è qualcosa di più di una automobile, altrimenti qualsiasi modello d’auto servirebbe allo scopo; e invece è l’oggetto su cui proietto la mia carica libidica, che mi permette non solo di avere ma sopratutto di essere.
Di essere e di avere quelle caratteristiche che io attribuisco al possessore dell’oggetto.
Per questo Girard parla di desiderio «meta-fisico»: non si tratta per lui di un semplice bisogno perché «ogni desiderio è desiderio d’essere».
Fonti:
“La teoria del desiderio mimetico in René Girard. Verità romanzesca e menzogna romantica”.
“René Girard: di miti, religioni e capri espiatori” di Marco Aime
“La mancanza e il desiderio” – Giselle Ferretti
Bruno Moroncini, Rosanna Petrillo, Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan
https://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Girard
Garzanti – Psicologia a cura di U.Galimberti
Zerbetto Riccardo, “La Gestalt. Terapia della consapevolezza”, Milano, Xenia, 1998
Perls Fritz, Baumgardner Patricia, “Terapia della Gestalt. L’eredità di Perls – Doni dal lago Cowichan”, Roma, Astrolabio, 1983
Pessa Eliano, ”Reti neurali e processi cognitivi”, Roma, Di Renzo Editore, 1993
Immagine: “Nocturnos” – Ricardo Cinalli
“Il fondamento della vergogna non è il nostro sbaglio personale,
ma che tale umiliazione sia visibile a tutti.” Milan Kundera.
Il senso della vergogna viene descritto come:
– un turbamento o senso di indegnità avvertito dal soggetto che presume di ricevere, o effettivamente riceve, una disapprovazione del suo stato o di una sua condotta da parte degli altri,
– un senso improvviso e sgradevole di nudità, di sentirsi scoperti, spogliati, smascherati,
– un senso di paralisi, di blocco, un sentirsi irrigiditi, pietrificati,
– il conseguente desiderio di sparire, di sprofondare, di diventare invisibili.
La sensazione generale che ne deriva è una sorta di profondo turbamento, di disorientamento, di confusione, desiderio di fuga e di blocco dell’azione.
La vergogna è conseguente ad una sensazione di smascheramento: viene violato ciò con cui ci si copre per proteggere l’intimità del proprio sé e l’immagine diventa improvvisamente evidente all’occhio esterno, alla vista degli altri; ci si percepisce nudi, esposti allo sguardo altrui, visti per come si è e non ci si sarebbe voluti mostrare.
Spesso l’individuo mette in atto modificazioni nello stile di vita di relazione che tendono a limitare la libertà di azione, per timore di dover fare i conti con questa condizione emotiva disagevole.
Centrale quindi nello sviluppo e nel mantenimento del problema è la paura del giudizio dell’altro, probabilmente per le esperienze precoci di invalidazioni di vissuti emotivi fondamentali.
Questi sentimenti dolorosi hanno come conseguenza l’orientarsi verso stili di vita caratterizzati da timidezza e distacco dagli altri.
Una caratteristica specifica della vergogna è il suo carattere instabile e aleatorio che la rende talvolta più difficile da cogliere e riconoscere rispetto ad altre emozioni: è una emozione episodica, in cui non si resta a lungo, che tende piuttosto a trasformarsi in altre emozioni simili (rabbia, colpa, invidia, ansia).
Funziona prevalentemente per accessi, del tipo tutto o nulla e tende a coinvolgere globalmente il sé.
Inoltre presenta un carattere di contagio e di transitività: si prova vergogna per essersi vergognati, si prova speculare vergogna o imbarazzo di fronte all’improvviso vergognarsi di qualcuno, ci si vergogna di parenti o amici.
Queste caratteristiche rendono difficile l’ascolto della vergogna e quindi la sua reale e profonda accoglienza e accettazione da parte di chi la sperimenta: si tende più facilmente a fuggirlo.
Vergognarsi del proprio corpo, della sua forma, della sua goffaggine o rigidità di movimento è un modo piuttosto immediato attraverso cui si esprime la vergogna di sé, la non accettazione, l’autogiudizio e l’autocondanna.
L’intensità del vissuto di vergogna è variabile: quando è sentita come insopportabile la vergogna viene nascosta o più spesso camuffata in rabbia, odio, a volte invidia o depressione, apatia, ritiro.
Inoltre la vergogna si pone sul crinale tra intrapsichico ed interpersonale: si tratta infatti di un sentimento che riguarda contemporaneamente la sfera della massima intimità dell’individuo e della sua interiorità, il senso di sé e le sofferenze e i disagi ad esso connesse, la dimensione relazionale e sociale in quanto concerne i vissuti relativi al sentirsi visti dall’altro.
Quindi il senso di vergogna mette in relazione l’esperienza intrapsichica con quella interpersonale, la sfera narcisistica e la sfera cosiddetta oggettuale, ponendosi su un terreno di mediazione tra i due versanti, che del resto sono sempre intimamente intrecciati.
Sul piano interpersonale la vergogna è spesso associata ad un atteggiamento di sottile competizione, in cui io mi percepisco irrimediabilmente perdente, mentre l’altro – generalmente un altro significativo – diventa luogo di proiezione dei vari aspetti del mio sé ideale.
Un’altra manifestazione che tende a difendere il sé dalla vergogna è la rabbia. Questa si presenta come un bisogno incoercibile di vendicare un torto vissuto, come una ferita narcisistica allo sviluppo affettivo del sé, che ha generato un profondo senso di umiliazione (Kohut, 1971). Molte volte la rabbia si presenta in forme più sottili, ad esempio attraverso il sarcasmo o l’ironia, ed ha la funzione di far provare all’altro il senso di umiliazione e vergogna che si è sperimentato.
Alcuni psicoanalisti americani hanno descritto il cosiddetto “ciclo della vergogna-rabbia”: in questo ciclo accade che ci si vergogna di se stessi, del proprio essere troppo passivi, incapaci o comunque difettosi rispetto a qualcun altro, e che tale vergogna produce un ritiro in se stessi, ma anche risentimento e rabbia verso l’altro contro cui ci si scaglia, almeno mentalmente. Questa aggressione genera colpa, ulteriore ritiro e quindi aumento di vergogna, per cui il ciclo alimenta se stesso.
Per quanto riguarda la relazione interpersonale, quando è presente il senso di vergogna, si tratta di una relazione che non è, o non è ancora, reciproca, intersoggettiva, dove l’uno e l’altro siano percepiti entrambi soggetti, con uguale diritto di esistenza, pur nella diversità, bensì di una relazione fortemente asimmetrica, del tipo soggetto-oggetto, dove l’Altro, quello vincente, da cui ci si sente guardati (male) è il Soggetto, percepito come giudicante, sprezzante, svilente nei confronti dell’oggetto che sta osservando, quell’oggetto fallito, difettoso, insignificante, patetico e ridicolo che è esattamente ciò con cui chi prova vergogna si sta identificando.
La vergogna sta qui ad indicare lo scacco subito, il senso di indegnità avvertito da chi riceve, o presume di ricevere, un disconoscimento grave rispetto al proprio essere.
Interessante a questo proposito è l’interpretazione filosofica che J.P. Sartre dà della vergogna.
Egli riconduce la vergogna al puro e semplice fatto di essere esposti allo sguardo dell’altro, cosa che, rendendoci oggetto di osservazione da parte di un soggetto altro, ci deruba della nostra soggettività, per ridurci ad oggetto del suo spettacolo.
La vergogna scrive “non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente, cristallizzato che sono io per gli altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione degli altri per essere ciò che sono”.
Il sentimento di vergogna, sia quella che subiamo e sia quella che, più o meno inconsciamente, tendiamo ad indurre e ad alimentare, può gradualmente ridurre i suoi effetti invalidanti, nella misura in cui favoriamo il crescere, nelle nostre relazioni, della consapevolezza e dell’attenzione per la propria e l’altrui soggettività.
La consapevolezza cioè del fatto che pur essendo in questo momento oggetto del mio sguardo, l’altro continua a mantenere una propria autonomia, una propria soggettività, che fa sì che esso non si esaurisca mai totalmente in ciò che io vedo.
Mantenere la consapevolezza del mistero che ciascun soggetto continua ad essere, per se stesso e per l’altro, della molteplicità di aspetti che non sono mai del tutto evidenti ed oggettivi, la consapevolezza cioè di uno svelamento ulteriore sempre possibile e mai completamente esaurito.
E qui torna spontaneamente ad imporsi all’attenzione quell’aspetto della vergogna che sembra portare in sé il passaggio evolutivo di affermazione della soggettività che spinge a difendere il proprio Sé, e di conseguenza quello altrui, da intrusioni invasive nella sfera dell’intimità.
Ci sono identità socialmente considerate deplorevoli, ( i “capri espiatori” ) che sono spesso identificati per razza, classe sociale, cultura di origine, etnia di appartenenza e orientamento sessuale, che hanno il fine di scaricare la frustrazione comune per mantenere il precario equilibrio di società e di persone scarsamente evolute.
All’interno di queste identità sociali il sentimento della vergogna può essere più o meno forte, più o meno esplicito e può nascondersi anche dietro marcate dichiarazioni di appartenenza.
Questo sentimento di vergogna è anche inevitabilmente la risposta ad uno sguardo purtroppo oggettivante di chi, sentendosi “il Soggetto” tende a rendere l’altro “cosa”, spogliandolo del suo diritto di soggetto.
Credo sia necessario riconoscere la responsabilità dello sguardo, del modo di guardare, di pensare e di parlare a noi stessi, all’altro, al mondo, con il fine di ridurre “l’effetto Gorgone” da cui siamo circondati, ovvero “lo sguardo che pietrifica”, immagine simbolicamente evocativa della sofferenza connessa al sentimento della vergogna.
Fonti:
Agnese Galotti -Vergogna e immagine di sè
http://www.geagea.com/52indi/52_08.htm
Umberto Galimberti – Psicologia – Garzanti
Meterangelis G. – La Vergogna e le organizzazioni narcisistiche patologiche (2011)
“Rifugi della Mente – Processi di sviluppo”
Immagine: Ricardo Cinalli – Risurrezione
Le forme di abuso e di maltrattamento possono essere considerate da diversi punti di vista. In questo post vengono presi in considerazione quegli abusi costanti e striscianti, insiti in forme di comunicazioni e di relazioni tossiche, malsane e malate.
Vengono quindi prese in considerazione in modo primario le forme di abuso psicologico e solo marginalmente si parlerà di quelle forme che sfociano, in minaccia o atto, di abuso fisico o sessuale.
In questa ottica si considera fondamentale separare gli atti posti in essere con cosciente e consapevole volontà di causare un danno psicologico a un altro essere umano da quegli atti, e sono la maggior parte, che sono agiti in modo inconsapevole o inconscio ma che esitano comunque e sempre in una condizione di malessere in chi li subisce e, pur in maniera diversa, anche in chi li commette.
Fernandez definisce l’abuso come “azione violenta che, condotta con intenzione e direzionalità, cerca di causare danno a una persona”.
In realtà non è sempre vero che l’abusante abbia sempre una consapevolezza intenzionale e come fine principale quello di procurare un danno (che comunque provoca e di cui sottovaluta le conseguenze), sembra però che a volte la spinta emotivo-affettiva si organizzi attorno a:
– sentimenti di onnipotenza;
– bisogno di sottomettere ed anche annichilire l’altro;
– bisogno di controllo assoluto sulla vita dell’altro;
– scaricare un desiderio distorto, caratterizzato cioè da una deformazione o deviazione dello stimolo rivolto a procurare un danno;
– comportamenti appresi nella sfera famigliare, subiti prima e riproposti poi.
Queste osservazioni riportano al quesito non risolto se si tratti di un atto istintivo che ha un valore in sé oppure se, al contrario, sia il risultato di un retroscena ampiamente psicopatologico (naturalmente ci sono i casi, che vanno chiariti, nei quali si può riscontrare una vera volontà di delinquere) che non è argomento di questo post.
Quando l’abuso si riferisce a un danno provocato, l’uso della parola non è corretto per cui bisognerebbe parlare di violenza che può essere agita sia sul corpo che sulla organizzazione psico-affettiva.
Quando l’abuso viene perpetrato involontariamente e con modalità velate, oscure o inconsce tutto diventa più complesso in quanto l’attore, e spesso la persona che subisce, non percepiscono la gravità delle conseguenze psicologiche che provocano questi atteggiamenti di continua e costante svalutazione.
La violenza psicologica si mette in atto provocando continuamente la vittima, con offese, denigrando, con il disprezzo e con l’umiliazione ma anche con il sarcasmo. Inculcando nella sua mente il seme dell’ossessione e dell’insicurezza, limitando la vittima della sua libertà o della sua intimità. Mentendo o mettendo l’accento sugli aspetti della realtà più svalutanti, con l’esclusione dal potere decisionale e spesso con l’isolamento.
In alcuni casi si possono rilevare modalità disfunzionali che coinvolgono interi sistemi familiari nella attuazione inconscia di comportamenti prevaricanti e non rispettosi dei confini e dei limiti di un singolo componente del nucleo familiare che, spesso, se segnala il proprio senso di disagio viene escluso o allontanato dal nucleo. Allontanarsi da un nucleo disfunzionale è a volte inevitabile ma nei casi di esclusione subita, senza aver compreso, anche a livello solo razionale, le dinamiche sottostanti, questo viene vissuto con sensi di colpa (una colpa senza nome) e non integrato in una visione di Sè e della propria biografia dotata di senso.
Dobbiamo quindi parlare di un trauma che riguarda per lo più la sfera psico-mentale e che coinvolge sia la potenzialità dell’attore che quella di chi subisce il trauma.
Una azione può risultare più traumatica se agita in pubblico, piuttosto che in privato, anche perché può essere più incisiva se suscita sensi di vergogna.
Può diventare traumatico non solo un atteggiamento attivo, ma anche una negligenza, una mancanza ed anche un semplice allontanarsi, un atteggiamento, una modalità anche non verbale.
L’azione traumatica può diventare tale se il soggetto si trova impreparato (da una azione imprevedibile) o in una condizione anche temporanea di debolezza (per es. un trauma verbale in una persona anziana, temporaneamente indifesa perché depressa o agitata per altri motivi) o incapace di sopportare l’ira, il sarcasmo o la fredda indifferenza dell’attore.
Anche un eccesso di accudimento può esitare nelle conseguenze di un abuso. Un dare continuamente senza lasciare il tempo di formulare e a volte nemmeno di pensare il bisogno. Saturare una richiesta prima che venga espressa. Soddisfare dei bisogni o prevenirli porta a soffocare la domanda e quindi il soggetto non può che allontanarsi o protestare per far comprendere, magari per vie negative la vera domanda.
In forma leggera la situazione è probabilmente più frequente di quanto si pensi ed è ampiamente sottovalutata perchè non causa evidenti problemi fisici immediati. La manifestazione più severa dell’ipercura è la sindrome di Münchausen per procura, in questo caso si attribuisce, generalmente al bambino, sintomi e malattie di cui non soffre realmente, ma che sono piuttosto il frutto di una convinzione distorta, radicata nello stato di salute fisica e psicologica del genitore che trasferisce su di lui (per procura) il proprio stato e la propria convinzione di malattia.
Il trauma non produce generalmente danni fisici, e quindi visibili, immediati (se si eccettuano i momentanei stati d’ansia), ma successivamente si possono provocare:
– perdita dell’equilibrio psico-mentale;
– diminuzione del senso di sicurezza o condizioni di paralizzante insicurezza;
– paura di aver perso le proprie capacità mentali;
– sensazione di incapacità od insufficienza ad assolvere i propri compiti;
– convinzione di essere la causa di questo accadimento;
– diminuzione dell’autostima e perdita del senso di auto-soddisfazione;
– sentirsi senza via d’uscita,
– ridurre l’empatia e la dimensione dell’intimità.
– sentimenti di vergogna e colpevolezza
– ritiro sociale e abuso di sostanze
La violenza verbale può assumere anche aspetti di abuso se:
– svalorizza l’altro nelle sue capacità psico-fisiche, attitudini, potenzialità;
– blocca o devia gli argomenti dell’altro;
– ribatte ogni giustificazione;
– irride o minimizza i valori dell’altro;
– giudica e critica in maniera incontrovertibile, rifiutando ogni tipo di dialogo;
– confonde l’altro con argomentazioni ossessive;
– erode la fiducia e la determinazione dell’altro;
– insulta o alza smodatamente la voce;
– minaccia di passare alla compulsività fisica;
– approfitta di leggere dimenticanze, usando anche la manipolazione.
Le caratteristiche della violenza riguardano:
– produrre risposte d’angoscia: questa si definisce come risposta emotiva intensa, automatica e inconscia;
– incutere paura, che è una risposta mediata (non automatica), elaborata da processi personali consci ed inconsci e che, quindi, ha le caratteristiche che l’assimilano ai sentimenti;
– provocare uno stato di terrore nel quale è implicito un senso di impotenza totale che nei casi più gravi può far sentire di essere di fronte ad una esperienza catastrofica o ad una morte inevitabile.
A volte queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione diversa si presenta invece quando si è esposti a queste forme di legami per lungo tempo e a poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale sopratutto per l’infanzia, che è il periodo in cui i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo – quindi quello che accade a loro è, e diventa, per così dire, la legge dell’universo e la propria visione del mondo. E’ dunque chiaro che in questi casi non si tratta di un trauma isolato; siamo piuttosto di fronte a un modello ben determinato di interazione. Si può meglio capire la qualità interattiva di questo modello se si tiene presente che il doppio legame nell’adulto non può essere – per la natura della comunicazione umana – un fenomeno unidirezionale.
L’indice dell’importanza della violenza tiene poi conto del soggetto verso il quale l’azione viene agita, proprio perché, per esempio, un bambino o un anziano sono più vulnerabili di un adulto e un disabile ha meno capacità di difendersi.
Inoltre, le percezioni personali riguardo alla violenza si legano inesorabilmente alla percezione del livello di potenzialità aggressiva dell’attore sia per sé che per il ruolo che lo caratterizza e, quindi, sulle possibili ritorsioni in caso di autodifesa, di reazioni di contenimento o aggressive a loro volta.
Spesso si assiste a una notevole sottovalutazione del fatto che persone con problematiche personali ed emotive non risolte, e con scarse possibilità di risolverle da sole, producano comportamenti non empatici e non rispettosi dei limiti dell’altro e che questi possono determinare una condizione di abuso e provocare effetti intensi e duraturi negli anni che vengono a volte anche tramandati tra generazioni. L’abuso e il maltrattamento sono fenomeni che non si risolvono con il semplice passare del tempo. Si cronicizzano. E’ necessario superare la paura anche solo di pensarle queste situazioni, evitare di negare che il problema esista o che si possa risolvere da solo.
Anche perchè a volte sono sostenute da persone che credono di possedere una presunta superiorità “morale”.
E’ necessario infine sottolineare che non tutto il dolore è patologia. Spesso il dolore, anzi l’essenza del dolore, è non conoscenza di sé, della propria biografia e delle dinamiche relazionali e comportamentali che fanno parte della propria storia di vita.
Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388Fonte:
Romeo Lucioni, Ida Basso – Nel segno dell’abuso
http://www.slowmind.net/timologinews/abuso3.html
P. Watzlawick, J.H.Beavin, D. Jacson – Pragmatica della comunicazione umana
Umberto Galimberti: Il successo della filosofia – Feltrinelli Editore
http://www.feltrinellieditore.it/news/2003/10/23/umberto-galimberti-il-successo-della-filosofia-2200/
Immagine: Maurizio Bottarelli, Spiaggia nera a Mokau (particolare), 2007
Nonostante le differenti interpretazioni che si riscontrano nelle varie culture ed epoche storiche, i colori (come abbiamo visto in un post precedente sulla psicologia dei colori) rappresentano in ogni area geografica e a ogni livello di conoscenza uno dei livelli più significativi della lettura simbolica del mondo esteriore e interiore. Per ciascuna cultura e per ciascun individuo ogni colore assume un certo significato ed esercita un certo effetto connesso a immagini, contenuti, figurazioni ed emozioni che il soggetto percepisce anche se non conosce.
In alcune tribù Balinesi si usa definire l’infinita gamma di colori in due modi: i colori chiari e i colori scuri. Scrive l’antropologo G.Bateson in Mente e Natura: “in tutte le forme di pensiero, anche se in qualcuna di più e in qualcuna di meno, c’è una fortissima tendenza a pensare e a parlare come se il mondo fosse costituito da parti separabili. Tutti i popoli del mondo, tutti i popoli esistenti e conosciuti hanno qualcosa che somiglia a una lingua e sembra che tutte le lingue si basino su una rappresentazione particellare dell’universo. Tutte le lingue hanno qualcosa di simile ai nomi e ai verbi, che isolano oggetti, enti, eventi, esperienze e astrazioni. In qualunque modo si esprima, la differenza suggerisce sempre delimitazioni e confini, produce conflitti e procura inutili soffferenze.
Se i nostri mezzi per descrivere il mondo scaturiscono da nozioni di differenza, allora la nostra immagine dell’universo non può che essere particellare.
Diffidare quindi della lingua e credere nella sostanziale unità dell’essere diventa un atto di fiducia.
Quando parliamo dell’universo non possiamo far altro che darne descrizioni suddivise. Ma queste suddivisioni in confini, in parti nominabili, possono essere fatte in tanti modi. Alcuni migliori, altri peggiori. A volte in buonafede a volte in mala-fede.
Chi delimita confini e marca diversità esprime una visione primitiva e parziale del mondo.
Come dice W. Blake in The Gost of Abel: “la natura non ha contorni”.
Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388Tratto da:
Bateson Gregory – Mente e natura – Psicologia – Adelphi Editore
Bateson Gregory – Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente – Psicologia – Adelphi Editore
Galimberti Umberto – Psicologia – Garzanti https://it.wikipedia.org-psicologia
Modelli di psicologia – Il Mulino
Immagine: Piet Mondrian | Armonia Perfetta
Immagine di copertina: Piet Mondrian | Armonia Perfetta (modificata)Tag. Psicologia, psicologia del colore, Armonia perfetta, Mente e natura, Il test dei colori, psicologia dell’arte
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2016/05/L-ARMONIA-PERFETTA-1.jpg5471030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2018-08-18 04:07:172022-05-06 11:25:32L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura
IL TEMPO DEL CAMBIAMENTO – Quanto dura una psicoterapia
“Ricostruendo, attraverso la psicoterapia, la sua storia al di fuori delle lusinghe narcisistiche dell’autobiografia, il soggetto riordina le contingenze passate attribuendo loro il senso di necessità future.
Connettendo passato e futuro la storia si fa progetto senza scadere nel delirio onnipotente.
Il tempo del soggetto è dunque il futuro anteriore, quel “sarà stato” che scandisce la terapia.
Solo attraverso l’esaustione di tutte le impossibilità il soggetto accede a quei pochi gradi di libertà con i quali può esercitare il suo residuo potere”. Silvia Vegetti Finzi
Quanto dura una psicoterapia
La durata di una psicoterapia è molto variabile e dipende da numerosi fattori: da quanto tempo la persona ha sopportato da sola il problema, la complessità del problema, la condizione emotiva del paziente al momento della richiesta e le sue possibilità economiche.
Spesso si pensa che i problemi di tipo psicologico necessitino di un intervento lungo e costoso.
Con un percorso di psicoterapia integrata a volte il problema si sblocca in poche sedute permettendo alla persona di recuperare la fiducia nelle proprie capacità personali.
Inoltre nessun paziente viene sequestrato dal suo terapeuta; bensì decide sempre in maniera autonoma e certo, se vuole, insieme al terapeuta, di poter scegliere il momento più adatto in cui sospendere o interrompere il suo percorso.
Chiaramente più sono complessi gli obiettivi e le situazioni che la persona si prefigge di raggiungere, di superare o comprendere e più probabilmente sarà necessario impegnare del tempo per raggiungerli.
A volte però è necessario essere supportati soltanto per un breve tratto del proprio percorso di vita.
Nel mio caso comunque la scelta di rinnovare ogni volta l’incontro terapeutico è sempre del paziente che scieglie, in totale libertà, di valutare e decidere se proseguire o interrompere il percorso psicologico o psicoterapeutico proposto anche senza dare formale comunicazione allo psicoterapeuta.
Chiedere, anche con un solo colloquio, il parere di uno psicoterapeuta, significa avere la totale riservatezza garantita dal segreto professionale e l’opinione di un professionista per tutti quei problemi che non si riescono a risolvere da soli.
Ogni seduta deve essere considerata come incontro unico e rinnovabile solo fissando un nuovo appuntamento.
E’ opportuno comunque riflettere sul fatto che un percorso terapeutico è un percorso di conoscenza di sè che è utile affrontare con serietà.
La psicoterapia
La psicoterapia è una terapia della parola; è l’arte di saper dare il giusto nome alle istanze della psiche per donare un senso nuovo, più profondo e più ampio alla propria biografia e alla propria storia.
E’ essenzialmente un percorso di conoscenza di sè stessi che porta anche a imparare a rispettare i propri tempi interni.
Jung diceva che: “tutto ciò che ha valore esige tempo e richiede pazienza “affinchè le parole dette e ascoltate diventino memoria”.
“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2018/08/cambiamento-1.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2018-02-18 10:10:342022-10-18 13:30:25IL TEMPO DEL CAMBIAMENTO – Quanto dura una psicoterapia
“La psicologia, ancor prima che costruzione teorica è, innanzitutto testimonianza del processo psicologico che, in ogni individuo, ha i tratti dell’unicità e dell’irripetibilità”.
Scrive Jung:
“la psicologia ha lo scopo di rendere la persona più consapevole del proprio processo psichico ma in senso più profondo non è una spiegazione di tale processo perchè ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche”. La psicologia non è “nè biologia nè fisiologia nè alcun’altra scienza [ma] soltanto conoscenza della psiche o scienza dell’anima“.
Pertanto, continua Jung:
“chi vuole conoscere la psiche umana imparerà poco o nulla dalla psicologia sperimentale. Sarebbe per lui consigliabile riporre nel cassetto la scienza esatta, spogliarsi della toga del dotto, dire addio allo scrittoio e, armato di tutta la sua umanità, vagabondare per il mondo, attraverso gli orrori delle prigioni, dei manicomi e degli ospedali;
attraverso le tetre bettole di periferia, i bordelli e gli inferni del giuoco; attraverso i salotti della società elegante, la borsa, i raduni di partito, le chiese, i revivals e i riti estatici delle sette:
sperimenterebbe così sulla propria pelle l’amore e l’odio, la passione in tutte le sue forme;
tornerebbe arricchito di un sapere che i suoi fitti trattati non gli avrebbero mai dato, e sarà di miglior aiuto per i suoi pazienti, un vero conoscitore dell’anima umana.
Infatti, tra ciò che la scienza chiama “psicologia” e ciò che le persone, nella vita pratica, di ogni giorno, si attendono dalla “psicologia” si è scavato irrimediabilmente un abisso profondo”.
Consapevole dell’ineliminabile presenza del soggetto nel processo di costruzione del processo psicologico, Jung è dell’idea che ogni tentativo di descrivere la psiche conduca al riconoscimento non di una realtà oggettivamente data, ma solo di una prospettiva sulla psiche stessa.
Le acquisizioni della psicologia vengono quindi lette non come realtà assolute, ma come ipotesi, strumenti, modelli che, in quanto rappresentazioni, si danno relativamente e limitatamente a un determinato osservatore, la cui esperienza è filtrata – individualmente – dalla particolare tipologia psicologica a cui appartiene e – culturalmente – dal particolare momento del processo storico-scientifico in cui è inserito”.
Fonti:
– R. Bernardini. “Jung a Eranos – Il progetto della psicologia complessa”. Franco Angeli Editore
– C.G. Jung. “Der Geist der Psychologie” (1947/1954), tr. it.: “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche”, in : Op. Vol. 8, p. 240
– C.G. Jung. “Uber die Archetipen kollektiven unbevuBten (1935/1954), tr. it.: “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” in Op. Vol. 9i pag. 29
– C.G.Jung. “Neue bahnen der Psychologie” (1912), tr. it.: “Vie nuove della Psicologia” in Op. Vol. 7 pag. 240
Immagine: Edward Hopper – Stanza sul mare
Ringrazio Alessandra Govoni per avermi segnalato l’interessante argomento.
C.G. Jung
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2017/10/LANIMA-PER-SITO.png4541031Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2017-10-18 07:50:132020-09-28 14:31:02L’ANIMA DI JUNG
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