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LA SICUREZZA DEGLI OGGETTI

LA SICUREZZA DEGLI OGGETTI

Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino”
C.G. Jung

“Ricostruendo, attraverso la psicoterapia, la sua storia al di fuori delle lusinghe narcisistiche dell’autobiografia, il soggetto riordina le contingenze passate attribuendo loro il senso di necessità future.

Connettendo passato e futuro la storia si fa progetto senza scadere nel delirio onnipotente.
Il tempo del soggetto è dunque il futuro anteriore, quel “sarà stato” che scandisce la terapia.

Solo attraverso l’esaustione di tutte le impossibilità il soggetto accede a quei pochi gradi di libertà con i quali può esercitare il suo residuo potere”.
Silvia Vegetti Finzi

“La sicurezza degli oggetti”

è un film del 2001 diretto da Rose Troche.

In un sobborgo americano le esistenze di quattro famiglie si incrociano.

Le vite di tutti si incroceranno solo per scoprire di essere determinate più dal possesso di determinati oggetti che dalla propria affettività.

Una folla di protagonisti recitati da bravi attori, una sceneggiatura ben strutturata negli incroci apparentemente casuali dei vari destini.

I protagonisti sono moderni disadattati, divenuti affettivamente analfabeti, che cercano tuttavia di aggrapparsi a quello che hanno per dare un senso alle proprie vite ma senza trovare il coraggio di approfondire sè stessi.

Sono persone perbene, della classe media, con belle case, tanti oggetti, eppure sentono la mancanza di qualcosa di fondamentale.

Manca per esempio la trasparenza dei sentimenti, che risultano opachi a sé e agli altri e manca la consapevolezza del proprio spessore psicologico, come manca il possesso di affetti, anziché di cose, mentre ci sarebbe – e invece si spreca – il tempo di condividere esperienze con gli altri.

Concentrandosi su alcuni episodi significativi delle loro esistenze, il film ci restituisce così brandelli di una vita alienata, descritta con uno stile minimalista, attento ai particolari minori, solo apparentemente insignificanti, e lo fa però con calore umano e autentica capacità di empatia nei confronti dei protagonisti.

Perché l’insensatezza è di questo mondo e riguarda in fondo tutti noi, in particolar modo quando abbiamo paura di incontrare noi stessi e non riusciamo a trovare la forza di approfondire le forze inconsce che ci abitano e che hanno un peso enorme sulle nostra vita agendo al di fuori della consapevolezza.

E’ forse questa paura la fonte di tante vite che dall’esterno appaiono assurde, senza un senso, le vite “a caso”, destinate ad accartocciarsi  in un finale tanto prevedibile agli altri quanto incomprensibile a sè stessi.

Dott. Donato Saulle

Psicologo Milano Donato Saulle

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Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO– Cell. 3477966388BLU
Fonti:
mymovies.it
Amazon – La sicurezza degli oggetti
Immagine:
“Ieweled Infinite” di Rafael Araujo

Le logiche della comunicazione di paul grice

LE LOGICHE DELLA CONVERSAZIONE DI PAUL GRICE

LE LOGICHE DELLA CONVERSAZIONE

“Un comportamento definito “folle” può essere l’unica reazione possibile ad un ambiente in cui si comunica in maniera assurda e insostenibile”
Paul Watzlawick

Herbert Paul Grice

(1913 – 1988) è stato un filosofo inglese, docente dapprima a Oxford e successivamente a Berkeley.

Egli ha dato un enorme contributo alla teoria della comunicazione.

Le logiche della conversazione

Grice ha fissato regole fondamentali alla conversazione fra individui soggetti al principio di cooperazione che dice:

«Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato».

Il principio di cooperazione è dunque una convenzione sociale e culturale la quale ci aiuta a interpretare il significato contestuale di un enunciato, ovvero la sua implicatura conversazionale.

Le regole di cooperazione sono quattro

Le regole di cooperazione sono quattro e vanno sotto il nome di massime conversazionali e osservano questi principi:

– quantità (“Dai un contributo appropriato sotto il profilo della quantità di informazioni”)

– qualità (“Non dire cose che credi false o che non hai ragione di credere vere”)

– relazione (“Dai un contributo pertinente ad ogni stadio della comunicazione”)

– modo (“Esprimiti in modo chiaro, breve, ordinato”).

Implicature conversazionali

E’ comunque ovvio che queste massime possono essere violate o sfruttate secondo gli scopi comunicativi.

Il comportamento derivante dalla loro osservanza, violazione o sfruttamento – genera delle implicature conversazionali le quali sono:

«informazioni supplementari derivanti dal confronto di ciò che il parlante ha detto con la sua supposta aderenza al principio di cooperazione e alle massime».

Ad esempio, se al mio interlocutore dico: “Quella persona è sgradevole vero?”, e questi replica:  “Che bella giornata oggi, non è vero?”, dal fatto che egli non sta rispettando la massima della relazione (la sua risposta manca di pertinenza), e dall’assunto che stia comunque rispettando il principio di cooperazione (non ho motivo per ritenere l’opposto) – inferisco che la violazione della massima è deliberata e non accidentale: la sua conversazione quindi implica che egli non voglia pronunciarsi sulla persona in questione.

A partire dal 1975, molti sono stati i linguisti e i filosofi che hanno raccolto l’insegnamento di Grice, sviluppandolo in varie direzioni.

Questa teoria della comunicazione ha come pregi la semplicità e l’aderenza al percepito, al quotidiano, aspetti per le quali si rende molto intuitiva e interessante da esplorare.

ARGOMENTI ARGOMENTI DI PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

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Dott. Donato Saulle

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L’ANIMA DI JUNG

L’anima di Jung

“La psicologia, ancor prima che costruzione teorica è, innanzitutto testimonianza del processo psicologico che, in ogni individuo, ha i tratti dell’unicità e dell’irripetibilità”.

Scrive Jung:

“la psicologia ha lo scopo di rendere la persona più consapevole del proprio processo psichico ma in senso più profondo non è una spiegazione di tale processo perchè ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche”. La psicologia non è “nè biologia nè fisiologia nè alcun’altra scienza [ma] soltanto conoscenza della psiche o scienza dell’anima“.

Pertanto, continua Jung:

“chi vuole conoscere la psiche umana imparerà poco o nulla dalla psicologia sperimentale. Sarebbe per lui consigliabile riporre nel cassetto la scienza esatta, spogliarsi della toga del dotto, dire addio allo scrittoio e, armato di tutta la sua umanità, vagabondare per il mondo, attraverso gli orrori delle prigioni, dei manicomi e degli ospedali;

attraverso le tetre bettole di periferia, i bordelli e gli inferni del giuoco; attraverso i salotti della società elegante, la borsa, i raduni di partito, le chiese, i revivals e i riti estatici delle sette:

sperimenterebbe così sulla propria pelle l’amore e l’odio, la passione in tutte le sue forme;

tornerebbe arricchito di un sapere che i suoi fitti trattati non gli avrebbero mai dato, e sarà di miglior aiuto per i suoi pazienti, un vero conoscitore dell’anima umana.

Infatti, tra ciò che la scienza chiama “psicologia” e ciò che le persone, nella vita pratica, di ogni giorno, si attendono dalla “psicologia” si è scavato irrimediabilmente un abisso profondo”.

Consapevole dell’ineliminabile presenza del soggetto nel processo di costruzione del processo psicologico, Jung è dell’idea che ogni tentativo di descrivere la psiche conduca al riconoscimento non di una realtà oggettivamente data, ma solo di una prospettiva sulla psiche stessa.

Le acquisizioni della psicologia vengono quindi lette non come realtà assolute, ma come ipotesi, strumenti, modelli che, in quanto rappresentazioni, si danno relativamente e limitatamente a un determinato osservatore, la cui esperienza è filtrata – individualmente – dalla particolare tipologia psicologica a cui appartiene e – culturalmente – dal particolare momento del processo storico-scientifico in cui è inserito”.

ARGOMENTI ARGOMENTI DI PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

Dott. Donato Saulle

Psicologo Milano Donato Saulle
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Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milano

 Fonti:
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– C.G. Jung. “Uber die Archetipen kollektiven unbevuBten (1935/1954),  tr. it.: “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” in Op. Vol. 9i pag. 29
– C.G.Jung. “Neue bahnen der Psychologie” (1912), tr. it.: “Vie nuove della Psicologia” in Op. Vol. 7 pag. 240

Immagine: Edward Hopper – Stanza sul mare

blu psicologo milano Ringrazio Alessandra Govoni per avermi segnalato l’interessante argomento.blu psicologo milano

C.G. Jung

TERAPIA DELLA GESTALT – La somma delle parti

TERAPIA DELLA GESTALT

“Il tutto è più della somma delle parti”

La parola d’origine tedesca Gestalt  tradotta in passato in modo inadeguato con il termine “forma”, corrisponde invece al significato di “struttura unitaria”, “configurazione complessiva”, termini questi più adeguati in quanto implicano anche un aspetto di organizzazione della forma percepita.

La terapia della Gestalt si inserisce tra le terapie umanistiche e nasce a New York nel 1950 circa dalle intuizioni di Friedrich Perls, psicoanalista tedesco, emigrato negli anni quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti.

La vita di Perls è stata una sintesi continuamente rinnovata e rivitalizzata da un insieme vastissimo di esperienze umane sempre nuove e sempre diverse.

La stessa cosa possiamo dire della sua terapia in quanto sarebbe molto difficile precisare quanto questo suo approccio terapeutico deve a questa o a quella filosofia a questa o a quella scuola.

Inoltre le tecniche che sono nel tempo diventate celebri e utilizzate da altre teorie, oltre che in terapia della Gestalt, come la tecnica della sedia vuota, hanno portato la terapia della Gestalt ad essere identificata a volte con approssimazione con le sue tecniche e deprivata del suo imprescindibile sistema filosofico di riferimento.

L’apparente purezza della sua pratica clinica basata sul quì e ora e sulla immediatezza, in alcuni casi sorprendente degli esiti, sembrano permettere di eluderne gli assunti teorici che si possono invece ritrovare come base per la terapia della Gestalt, nella Filosofia Esistenziale, nella Fenomenologia e nella Semantica.

Nei suoi scritti sulla terapia della Gestalt tuttavia Perls  che privilegiava uno stile e personale e creativo e che aveva una visione fondamentalmente eclettica e pluralista della terapia, pur citando le persone che hanno avuto influenza sul suo pensiero, non si è mai preoccupato di precisare che cosa esattamente aveva preso dall’uno o dall’altro.

E’ più facile quindi inquadrare la terapia della Gestalt a posteriori, inquadrandola storicamente e cominciando con il considerarla una parte importante della Psicologia Umanistica che si rifà alle concezioni di Maslow, Carl Rogers, Rollo May, ma che in realtà è diventata il polo di aggregazione di idee e di correnti che hanno, rispetto alla Psicoanalisi classica, una presa di distanza che comunque non è mai contrapposizione frontale ma piuttosto esigenza di integrazione, superamento in una concezione più vasta.

Storicamente negli anni ’50 – ’60 l’orientamento è di tipo psicodinamico: il disturbo psichico è considerato in termini biomedici anche per le innovazioni farmacologiche del momento. Contemporaneamente è riconosciuta l’inadeguatezza dei manicomi.

In questo periodo nascono nuovi modelli di riferimento; sociogenetici, comportamentali, umanistici, esistenziali e nuove psicoterapie: brevi, familiari, di gruppo, con tecniche differenti legate ai differenti disturbi.

In generale vi è una maggiore attenzione alla storia familiare, evolutiva e agli schemi adattivi messi in atto e che sono considerati fondamentali anche nella terapia della Gestalt.
Sullivan nel 1954 propone una teoria basata sulla nozione di campo relazionale secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come personificazioni interiori anche in situazioni di isolamento. In quest’ottica la terapia è demedicalizata, il rapporto medico-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale il terapeuta sviluppa un maggiore atteggiamento empatico e riconosce l’importanza delle determinanti ambientali e sociali.

L’elemento innovativo introdotto da Perls nella terapia della Gestalt fu di estrapolare i principi delle leggi di percezione applicandoli ad una dimensione esistenziale ed evolutiva dell’individuo e quindi alla possibilità di utilizzarli in psicoterapia.
Alcuni ricercatori della psicologia della percezione infatti come Koler e Wertheimer sostennero che c’è prima di tutto una formazione complessiva – che essi chiamano Gestalt (formazione della figura) – e che tutti gli altri pezzi isolati sono formazioni secondarie e formulano la teoria della Gestalt in questo modo:
“ci sono degli insiemi il cui comportamento non è determinato da quello dei loro singoli elementi ma dove i processi delle parti sono determinati dalla intrinseca natura del loro insieme. Questo è il significato della celebre frase il tutto è più della somma delle parti. Lo scopo della teoria della Gestalt è di determinare la natura di questi insiemi.”
La psicologia della Gestalt (vedi: “La psicologia della percezione“) identificava un processo percettivo unitario grazie al quale i singoli stimoli sarebbero integrati nel soggetto in una forma dotata di continuità.

Ciò che prima era stato considerato un processo passivo, il percepire, veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo e cioè come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali.Scrive E. Pessa: “i gestaltisti concepiscono il processo di soluzione di un problema alla stregua di un processo percettivo governato, per l’appunto, da leggi gestaltiche, leggi che fanno sì che si tenda a percepire una buona forma. Anche la situazione problematica, individuata da elementi e rapporti tra questi elementi, è una forma, che però è percepita come cattiva, mancante, incompleta: è proprio questo che fa sì che la situazione costituisca un problema in quanto tale. Le leggi della buona forma impongono, però, una ristrutturazione, nel senso del ristabilimento di una struttura completa, chiusa, ottimale, che costituisce di per sé la soluzione stessa del problema. L’atto di ristrutturazione costituisce il celebre insight, già introdotto da Kohler. Si tratta di una concezione dell’apprendimento molto qualitativa e difficile da verificare sperimentalmente. Tuttavia ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il ruolo dei fattori di tipo globale nei processi di apprendimento. In altri termini, essa asserisce che, accanto alle singole associazioni tra stimoli e risposte e sovraordinato rispetto a queste, esiste un campo, esattamente analogo ai campi di forze di cui parla la fisica, che determina globalmente la dinamica del processo di apprendimento e le storie delle varie connessioni stimolo-risposta. L’evoluzione di questo campo è governata da leggi che tendono al mantenimento di un opportuno equilibrio globale e, nel caso in cui esso sia turbato, fanno insorgere delle forze che provvedono al suo ristabilimento”
L’indagine psicologica è quindi essenzialmente diretta a rintracciare le leggi di questa strutturazione e che sono poi le leggi che regolano il nostro contatto con il mondo. Un altro aspetto fondamentale della psicologia della Gestalt, poi ripreso dalla terapia della Gestalt, è quello dell’organizzazione del campo percettivo in figura e sfondo, che fu introdotta da Edgar Rubin  e che mise in risalto come la figura emergente è generalmente contraddistinta da contorni definiti che rappresentano il focus dell’attenzione ed è caricata di una maggiore energia di relazione con l’osservatore. Lo sfondo, al contrario, rappresenta il resto del campo visivo ed è caratterizzato da attributi inversi a quelli menzionati per la figura emergente. E’ interessante notare come allo stesso Rubin non sfugga l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato. Di qui la tendenza,non casuale, a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione.
K. Lewin attuò inoltre un importante esperimento di memoria che sarà poi ripreso come fondamento per l’impianto teorico della terapia della Gestalt e che darà origine ad alcune tecniche per risolvere quelli che sono definiti “unfinished business” e cioè i “compiti non conclusi”.
Scrive Perls: “in un esperimento Lewin diede ad un certo numero di persone dei problemi da risolvere. Non era stato loro detto che era un test di memoria, ma avevano l’impressione che fosse eseguito un test di intelligenza. Il giorno dopo fu loro chiesto di scrivere i problemi che ricordavano ed erano proprio i problemi non risolti ad essere ricordati di più di quelli che erano stati risolti”.

E’ come se i compiti non conclusi e i problemi non risolti creino una sorta di interferenza e di frustrazione e fino a quando il compito o il blocco non è stato superato, concluso o risolto la mente non si libera del pensiero e i comportamenti si ripetono nel tentativo di superare il blocco o di risolverlo, a volte la persona non si rende conto in modo cosciente di questo blocco ed è per questo che a volte è utile l’incontro con un terapeuta.

La parola “soluzione”, nel linguaggio della terapia della Gestalt, indica la scomparsa e la dissolvenza di una situazione confusa.

Quindi una situazione non conclusa polarizza una carica di energia destinata a completarla rendendo la stessa energia non più disponibile per altri tipi di esperienza. Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della situazione stessa anche in luoghi e tempi successivi interferendo quindi con la possibilità dell’individuo di entrare efficacemente in contatto con i contesti cognitivi, emotivi e sociali in cui di volta in volta verrà a trovarsi.
Nella terapia della Gestalt di Perls questo concetto si dilata per definire una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. La relazione è determinata da un bisogno del soggetto e mira alla soddisfazione di questo bisogno. Una volta soddisfatto il bisogno la relazione cessa e si dice che la Gestalt è terminata. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o semplicemente un qualsiasi bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento.
Perls, appropriandosi in termini operativi dei concetti esposti sopra insiste soprattutto sul fenomeno della Gestalt non terminata come spiegazione del disagio psichico e sul concetto di integrazione come vera e radicale modalità terapeutica.

Scrive P. Baumgardner: “la terapia della Gestalt è un modo di occuparsi di un altro essere umano per dagli la possibilità di essere sè stesso, saldamente ancorato nel potere che lo costituisce, la terapia della Gestalt è una terapia esistenziale e si occupa quindi dei problemi creati dalla nostra paura di assumerci le responsabilità di ciò che siamo e di ciò che facciamo. E’ stato infatti sviluppato un procedimento terapeutico che, nella teoria della terapia della Gestalt e nella sua pratica, evita l’uso dei concetti. Egli distingue il procedimento terapeutico da quello del parlare intorno a qualcosa e delle problematiche morali lasciandoci lavorare con i dati, con i comportamenti osservabili che costituiscono il fenomeno invece che con ipotesi razionali. Queste differenziazioni sono di primaria importanza nella terapia della Gestalt, che si occupa quindi e si serve di ciò di cui abbiamo esperienza piuttosto che di ciò che è frutto del nostro pensiero. Il terapeuta della Gestalt deve perciò creare una situazione particolare: deve diventare il catalizzatore che facilita la presa di coscienza da parte del paziente riguardo a ciò che c’è nel presente, frustrandone i vari tentativi di fuga. Questa necessaria frustrazione, se non sapientemente dosata, può risultare, per alcuni tipi psicologici, particolarmente fastidiosa e può esitare in drop-out terapeutici.

Pears introduce, come abbiamo visto, come base del suo lavoro teorico la parola Gestalt e ne considera due tipi: la Gestalt completa o intera e la Gestalt in formazione. Parlando così della Gestalt come dell’unità finale di esperienza, esperienza riguardante prevalentemente la consapevolezza. A questo proposito le nozioni basilari che utilizzeremo sono quelle di bisogno e di situazione incompiuta e delle interrelazioni tra le due. Se le esigenze dell’organismo sono soddisfatte, attraverso il dare e ricevere dall’ambiente, la Gestalt è completa e la situazione compiuta. La consapevolezza del bisogno diminuisce, scompare ed emergono altri bisogni. L’organismo è pronto ad affrontare un’altra situazione incompiuta con le energie connesse alle nuove esigenze emergenti.

Lo scopo della terapia della Gestalt è quello di recuperare le parti perdute della personalità. Le nostre esperienze e le nostre funzioni rifiutate possono essere recuperate. Questo procedimento di riprendere, reintegrare e sperimentare di nuovo è il campo della psicoterapia. Il terapeuta viene coinvolto, insieme al paziente, nel processo di riappropriazione di tali sensazioni e comportamenti abbandonati  fino a che il paziente comincia, continuando poi per proprio conto, ad affermare sè stesso e ad agire nei termini della persona che vuole essere realmente.

Dott. Donato Saulle

dipendenze Psicologo Milano

blu psicologo milanoFonti:
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Perls Fritz, Baumgardner Patricia, “Terapia della Gestalt. L’eredità di Perls – Doni dal lago Cowichan”, Roma, Astrolabio, 1983
Pessa Eliano, ”Reti neurali e processi cognitivi”, Roma, Di Renzo Editore, 1993
Immagine: Rob Gonsalves- Sun Sets Sailblu psicologo milano

TERAPIA DELLA GESTALT

Fritz Perlsblu psicologo milanoTag: terapia della Gestalt

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Underwood, B. (1969). Attributes of memory.. Psychological

VITE DI UOMINI NON ILLUSTRI

VITE DI UOMINI NON ILLUSTRI

Tutto, in natura, ha una essenza lirica, un destino tragico, una esistenza comica”

G. Santayana

Vite di uomini non illustri è un libro di Giuseppe Pontiggia.

GIUSEPPE PONTIGGIA

detto Peppo (Como, 25 settembre 1934 – Milano, 27 giugno 2003) è stato uno scrittore, aforista, critico letterario e docente italiano.

VITE DI UOMINI NON ILLUSTRI

Vite immaginarie di personaggi immaginari, nell’Italia compresa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Duemila:

donne e uomini dal destino oscuro, di cui vengono rievocate, con precisione “storica“, le esperienze che hanno reso memorabile ai loro occhi l’esistenza:

emozioni, incontri, amori, manie, schiavitù, liberazioni, sogni, disavventure, felicità, angosce.

Gli eventi veramente significativi e decisivi non corrispondono quasi mai ai dati esterni, ma appartengono a una trama segreta, a una mitologia familiare e personale, a una rete sotterranea di sentimenti, di ricordi e di desideri, a una vita parallela che spesso è clandestina e ignorata.

Questo libro racconta queste storie con la scansione cronologica delle biografie illustri, ma applicata a personaggi anonimi e a una cronaca spesso interiore; e riprende, in forme discrete e allusive, il linguaggio con cui le hanno vissute i protagonisti e i linguaggi d’epoca con le loro diverse inflessioni (da quella dannunziana a quella burocratica, da quella giornalistica a quella militare).

Ottiene così un contrappunto di stili che avvicina l’umanità delle figure da diverse angolazioni: e queste variaziani all’interno ne costituiscono uno degli aspetti più inventivi e nuovi nel quadro della narrativa contemporanea.

Raccontando l’esistenza di personaggi che appartengono alla cosidetta gente comune, l’autore ne scopre ogni volta l’eccezionalità.

Non c’è vita d’uomo che non sia ricca di phatos e di violenza, di svolte drammatiche e di situazioni comiche, di momenti sordidi e grandi, di private perversioni, di cadute e di nobili e imprevisti riscatti.

Leggere alcuni racconti di questo libro è come ritrovare, dentro una vita, la vita di tutti e dentro la vita di tutti la vita di ognuno. 

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de Capitani Filippo

“Nasce de Capitani il 3 ottobre 1932 nella clinica dell’Assunta di Bologna.

Scoprirà in prima elementare, nella scuola salesiana di Via Carracci che cosa significa essere nato con la de minuscola.

Significa – gli spiega sua madre con pacatezza indulgente, come se spiegasse la differenza tra l’acqua del mare e quella del lago – non essere nato come gli altri.

Sì, ma gli altri come nascono?

Sua madre si ritrae: “Tu pensa solo a quello che sei tu, hai capito?”

Tutta la vita cercherà di colmare una differenza che non sa quale sia“.

Dott. Donato Saulle

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Fonte: Giuseppe Pontiggia, Vite di uomini non illustri, Oscar Mondadori, Arnoldo Mondadori Editore, 1999, pp. 280, capp. 18, ISBN 978-88-04-50987-5.

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Il presente post ha il solo scopo di divulgare il libro senza scopo di lucro.

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PAUL DIRAC 1

(∂ + m) ψ = 0 – L’EQUAZIONE DI PAUL DIRAC

(∂ + m) ψ = 0

Paul Adrien Maurice Dirac (Bristol, 8 agosto 1902 – Tallahassee, 20 ottobre 1984).

Paul Dirac è stato un fisico e matematico britannico considerato tra i fondatori della meccanica e della fisica quantistica.

La meccanica quantistica è la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e delle loro reciproche interazioni.

La meccanica classica si dimostrò incapace di descrivere il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica a livello microscopico e su scale di lunghezza inferiori a quelle dell’atomo.

Come caratteristica fondamentale, la meccanica quantistica descrive la radiazione e la materia sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove per esempio la luce è descritta solo come un’onda o l’elettrone solo come una particella.

Paul A.M. Dirac

Paul A.M. Dirac, premio Nobel per la Fisica nel 1933, come teorico viene annoverato tra i fondatori della meccanica quantistica ed è famoso per le sue equazioni.

(∂ + m) ψ = 0  è l’equazione forse più famosa di Dirac e significa che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce».

É il cosiddetto fenomeno quantistico dell’«entaglement», che fornisce la base per la nuova visione filosofica del mondo.
Dirac era un ricercatore solitario, taciturno, al punto che i suoi colleghi, scherzando, avevano coniato una nuova unità di misura, il Dirac, che equivaleva ad una parola l’ora, il minimo che una persona potesse pronunciare in compagnia.
Ma, come succede spesso negli individui schizoidi, anche Dirac, dietro la sua apparente freddezza nascondeva una grande sensibilità.
La sua equazione  (∂ + m) ψ = 0  è ancora considerata la più “bella” della fisica.

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(∂ + m) ψ = 0 Dirac

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RABBIA E VENDICATIVITA’ – Il desiderio di pareggiare i conti

RABBIA E VENDICATIVITA’

L’uomo che coltiva per tutta la vita la propria vendetta mantiene le sue ferite sempre aperte”. 
F. Bacone

Con il termine rabbia si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto. Con la rabbia si prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stessi.

Di natura diversa è la vendicatività, cioè uno stato emozionale complesso che apparentemente nasce come reazione al dolore e alla rabbia successivi a una perdita. Le risposte più comuni conseguenti alla sofferenza della perdita di un oggetto d’amore sono quelle della tristezza o della depressione, sentimenti questi che possono giungere a innescare anche rabbia e desiderio di vendetta. Per Charles W. “Le osservazioni cliniche suggeriscono che la tristezza può continuare a essere l’aspetto predominante della depressione solo fino a che il soggetto riesce a mantenere l’investimento libidico sul mondo oggettuale operando una deviazione dell’aggressività sul Sè. Gli stati d’animo di rabbia e vendetta, oltre che da ferite e delusioni, possono essere fatti precipitare da un conflitto narcisistico, cioè da un conflitto avente a che fare con il senso di colpa o da una esperienza di fallimento o di grave sbaglio con conseguenti sentimenti di perdita, in cui l’aggressività diretta contro il Sè viene secondariamente rivolta verso soggetti esterni.

Mentre il sentimento della rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività è totalmente e inutilmente distruttiva. Il soggetto è in stato di forte malumore, appare implacabile, spietato, crudele, insensibile, inesorabile e inflessibile. Vive in funzione della vendetta, che sembra essere diventata l’unico scopo della sua vita. In preda a forti passioni, cerca di sfruttare qualsiasi occasione per dar luogo ad azioni punitive o di ritorsione, e al primo posto nella lista dei suoi desideri c’è quello di pareggiare i conti (in realtà, di andare anche al di là di un pareggiare i conti). Il quadro clinico è il medesimo sia che il soggetto pensi e agisca sulla base della convinzione di essere impegnato in una operazione di giusta punizione, sia nel caso in cui voglia dar corso a una rappresaglia maligna.

Si osserva una tendenza a mettere in atto la vendetta anche contro tutte le possibili avversità e a prescindere dai “costi” dell’operazione e alle conseguenze che possono giungere anche all’annullamento di sè. L’individuo in preda a questo stato non permetterà che il male che gli è stato fatto (vero o presunto) resti impunito. Protesterà insistentemente di non essere inferiore a nessuno e di non voler sopportare gli abusi arrecatigli da chichesssia. La persona vendicativa può essere, a tratti, consapevole dell’irrazionalità e inadeguatezza dei suoi sentimenti e dei suoi scopi, ma tale consapevolezza viene rapidamente oscurata dalla forza travolgente dello stato d’animo che prova. Non sperimenta alcun senso di colpa. Non mostra alcuna preoccupazione circa le possibili conseguenze morali, sociali e personali delle sue azioni.

A un livello psicologico più profondo il mondo del Sè e degli oggetti viene modificato, con la conseguente produzione di una serie di alterazioni del comportamento, del pensiero, degli atteggiamenti, dei valori, delle aspettative e della tonalità dei sentimenti. Il campo psicologico e mentale si restringe, l’orizzonte si oscura, il pensiero diventa ossessivo, la realtà viene interpretata come persecutoria e con il passare del tempo la situazione diventa cronica. Senza il continuo e necessario confronto con qualcuno che sappia ascoltare e mettere confini e limiti al proprio pensiero l’unica realtà diventa la realtà vendicativa che sostituisce il reale condiviso e il soggetto si sgancia dal proprio elemento umano. Se l’oggetto della furia vendicativa non è nel raggio d’azione di colui che cova i sentimenti di vendetta, può verificarsi un aumento dello stato di tensione. Il soggetto può avere la fantasia che in quello stesso momento stiano per essere perpetuate nuove cattive azioni contro di lui. La  somiglianza tra questi due aspetti e le fasi dello sviluppo paranoide è evidente, anche se non è necessariamente detto che nel soggetto vendicativo debba insorgere una condizione paranoide. Come in altre situazioni e stati d’animo di affettività intensa, la possibilità che una modificazione delle condizioni ambientali porti a una diminuzione della tensione è minima, perchè il soggetto tende a selezionare, per poi scartarli, tutti gli stimoli esterni che contraddicono il suo stato emotivo. Lo spirito vendicativo viene continuamente alimentato da una serie di immagini e fantasie sui presunti torti subiti. Il soggetto può anche dar luogo, consciamente e inconsciamente, ad atti nocivi per il suo immediato benessere, a partire dai quali procede poi verso lo stato di vendicatività, vissuto a quel punto come giustificato”.

Per Searles “Il fine conscio della vendicatività è il castigo, la punizione, nonchè un agognato stato di pace che ovviamente non si raggiungerà mai con il compimento della vendetta. Si osserva poi che di solito l’atto vendicativo stesso è altamente sovradeterminato. Da un punto di vista inconscio, il fine del soggetto vendicativo è quello di tenere nascosto un danno ancor più disastroso sofferto dal suo Io, un danno che costituisce la base di tutte le altre offese specifiche delle quali egli si lamenta. In questo senso l’atto vendicativo è un meccanismo di difesa la cui funzione è quella di nascondere traumi narcisistici più profondi. Si potrebbe forse dire che la vendicatività, o qualsiasi altra forma di ostilità, può servire come difesa contro la presa di coscienza di emozioni rimosse cariche di angoscia e la vendicatività sembra prestarsi in particolare alla rimozione dal dolore e dalla angoscia di separazione. Essa permette all’individuo di eludere o di postporre l’esperienza di questi due affetti, e della necessaria fase si separazione che porta la persona ad essere autonoma e adulta, perchè non ha veramente “rinunciato” alla persona verso cui è diretta la sua vendicatività: vale a dire, l’essere occupato con fantasie vendicative riguardanti quella persona serve, in effetti, a tenersi psicologicamente aggrappati ad essa.

I pazienti non si liberano dalla rabbia e dalla terribile sete di vendetta unicamente elaborando l’ostilità che è dentro di loro. Le radici della rabbia e della vendicatività saranno distrutte quando la terapia sarà riuscita a elaborare il dolore e l’angoscia da separazione situati nelle sfere più profonde, solo in quel momento il paziente potrà accostare i suoi simili in modo più flessibile e armonico”.

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Tratto da:
Bollati Boringhieri – Rabbia e vendicatività
Harold F. Searles – La psicodinamica della vendicatività – Rabbia e vendicatività  – Bollati Boringhieri
Charles W. Socarides – La vendicatività: il desiderio di pareggiare i conti – Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhieri
Immagine: Michelangelo – Anima dannata (part.)
Tags: rabbia, vendicatività

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“Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un giardino. Ci incontreremo laggiù” J. Rumi

Ben oltre le idee
di giusto e sbagliato
c’è un giardino.
Ci incontreremo laggiù”. 
J. Rumi

Oggi non parliamo direttamente di psicologia o di psicoterapia ma vogliamo proporre la poesia e la cultura di Mevlana Mohammed Rumi (nato nel 1207, morto nel 1273 a Konya) anche conosciuto come Jalāl ad-Dīn Muḥammad Rūmī (persiano: جلال‌الدین محمد رومی‎ ) che è considerato il massimo poeta della letteratura persiana.

Scrive Kabir Helminski il traduttore delle sue poesie in italiano: “quando iniziai a tradurre le poesie di Rùmì non avrei mai immaginato dove questo cammino mi avrebbe condotto. Quella che all’inizio mi sembrò una città esotica e lontana, il cui profilo e il cui aspetto iniziavo appena a distinguere, il luogo della poesia, ora è diventata un luogo più familiare, le cui strade e cui vicoli, non sono più visti in prospettiva, ma mi fanno sentire a casa. Per me questo mondo è reale e presente come quello esterno in cui vivo, e anche di più, perchè è un mondo di significati e non soltanto di “cose”.

Il suo genio letterario si rivela nei suoi versi di poesia lirica del Dīwān o canzoniere, noto come Divan-i Shams-i Tabrīz, considerato il suo capolavoro, un ampio arazzo in cui sono intessute favole e scene di vita quotidiana dei suoi tempi.

Per chi ha famigliarità con la sua vita e con le sue opere Rùmì è qualcosa di più di un poeta. Il tema della sua poesia non è la vita ma qualcosa di molto di più della vita. Mentre la maggior parte dei poeti ci propone costruzioni di pensieri e sentimenti accuratamente preordinati Rùmì scrive a partire da un luogo che è al di là del pensiero e del sentimento come noi li conosciamo: “I tuoi pensieri sono la sbarra alla porta. Rimuovi il legno”.

La sua poesia non è tanto la ricerca di una verità e di una conoscenza immanente o di una scoperta da farsi nel mondo esterno, quanto l’elaborazione di un immediato “adesso”, l’improvviso canto interiore dell’esperienza che inonda questo mondo senza appartenervi. E’ la conoscenza che trabocca di parole, suoni e immagini. La sua è conoscenza del tutto e, insieme, delle sue parti.

Rùmì costruisce il modello di uno sterminato mondo interiore utilizzando come metafora ogni possibile evento e situazione del mondo esterno. Cerca di scardinare le convenzioni del pensare e del sentire, cerca di cambiare i condizionamenti e portare il ragionamento oltre gli infiniti preconcetti e pregiudizi tuttora presenti nelle nostre società.

E’ da segnalare infine che l’opera di Rùmì non è frutto di ambizione letteraria, ma è un desiderio di essere utile. Per lo più i suoi componimenti lirici sgorgavano spontaneamente ed erano trascritti da chi si trovava ad ascoltare.

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J.RUMI Psicologo Milano Donato Saulleblu psicologo milano

Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milanoFonti:
Rumi – “L’amore è uno straniero” – Astrolabio-Ubaldini
http://it.wikipedia.org

SULLIVAN FOTO

HERBERT STACK SULLIVAN – IL CAMPO RELAZIONALE

Herbert Stack Sullivan 

Psichiatra e psicanalista statunitense (1892 – 1949) può essere considerato, insieme a K. Horney e a E. Fromm, il massimo esponente della tendenza culturalista neo-freudiana negli USA.
Ebbe una grande influenza nell’ambiente psicoanalitico specie per l’idea che egli aveva del disturbo mentale e per il suo modo di impostare il rapporto con il paziente

Il pensiero

Sullivan sosteneva che tutti i comportamenti umani sono la somma delle varie motivazioni che influiscono sulla persona in ogni momento specifico. Il senso della scelta è un riflesso nella coscienza della convergenza di vari motivi che si riconducono ai bisogni di soddisfacimento e di sicurezza.
Dunque il suo contributo sulle tecniche del colloquio clinico, in cui delineava un approccio meno nosografico e più interpersonale rispetto ai modelli classici, ha avuto molta influenza nella psichiatria statunitense degli anni tra il ’40 e ’50.

Il colloquio

Nel suo approccio, il colloquio diviene uno strumento non solo diagnostico, ma anche di analisi delle dinamiche relazionali usate dal soggetto, di cui questi non è sufficientemente consapevole.
Il superamento di tali “disattenzioni selettive” nei confronti dei propri stessi processi relazionali diviene quindi parte del processo terapeutico.
Nel 1954, come psicologo, psicologo clinico e psicoterapeuta, nel delineare lo sviluppo della psicologia individuale pose l’accento sui bisogni di sicurezza e sui vissuti di angoscia, interpretati come risposta alla frustrazione dei bisogni primari.

Il campo relazionale

Nell’analisi della personalità operò uno spostamento dai rapporti e conflitti intrapsichici alle dinamiche interpersonali, formulando una teoria basata sulla nozione di “campo relazionale”, secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come “personificazioni” interiori anche in situazioni di isolamento.

Quindi in quest’ottica il rapporto terapeuta-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato, ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale, il terapeuta, sviluppa un maggiore atteggiamento empatico riconoscendo l’importanza delle determinanti ambientali e sociali e si propone di individuare insieme al paziente, con rispetto e ascolto, gli eventi scatenanti del malessere e le motivazioni dell’isolamento per comprendere i vissuti correlati e il significato che questi eventi assumono nella narrazione di vita dello stesso.

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Fonte:
U. Galimberti – Psicologia – Garzanti
it.wikipedia.org/wiki/Harry_Sullivan
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