Paul Adrien Maurice Dirac (Bristol, 8 agosto 1902 – Tallahassee, 20 ottobre 1984).
Paul Dirac è stato un fisico e matematico britannico considerato tra i fondatori della meccanica e della fisica quantistica.
La meccanica quantistica è la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e delle loro reciproche interazioni.
La meccanica classica si dimostrò incapace di descrivere il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica a livello microscopico e su scale di lunghezza inferiori a quelle dell’atomo.
Come caratteristica fondamentale, la meccanica quantistica descrive la radiazione e la materia sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove per esempio la luce è descritta solo come un’onda o l’elettrone solo come una particella.
Paul A.M. Dirac
Paul A.M. Dirac, premio Nobel per la Fisica nel 1933, come teorico viene annoverato tra i fondatori della meccanica quantistica ed è famoso per le sue equazioni.
(∂ + m) ψ = 0 è l’equazione forse più famosa di Dirac e significa che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce».
É il cosiddetto fenomeno quantistico dell’«entaglement», che fornisce la base per la nuova visione filosofica del mondo.
Dirac era un ricercatore solitario, taciturno, al punto che i suoi colleghi, scherzando, avevano coniato una nuova unità di misura, il Dirac, che equivaleva ad una parola l’ora, il minimo che una persona potesse pronunciare in compagnia.
Ma, come succede spesso negli individui schizoidi, anche Dirac, dietro la sua apparente freddezza nascondeva una grande sensibilità.
La sua equazione (∂ + m) ψ = 0 è ancora considerata la più “bella” della fisica.
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Psicologo Milano
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2015/11/PAUL-DIRAC-1.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2015-11-08 23:06:062023-01-16 13:18:33(∂ + m) ψ = 0 – L’EQUAZIONE DI PAUL DIRAC
“Di tutte le meraviglie della comunicazione umana, forse la più impressionante è rappresentata dalla capacità della mente di esprimersi contemporaneamente a due livelli di significato distinti ma interconnessi.
E tuttavia, la mente stessa è in grado di esprimersi con modalità singole e dirette, senza traccia di un secondo significato pregnante.
Molto al di là di qualsiasi grado di controllo conscio, la mente passa automaticamente e quasi istintivamente da una forma di espressione all’altra, a seconda del suo stato psicofisiologico e delle condizioni esterne.
Tale capacità di produrre messaggi in codice con un significato manifesto che contiene contemporaneamente un secondo messaggio mascherato rappresenta un meccanismo di adattamento molto efficace.
Gli esseri umani sopportano solo per breve tempo di venire direttamente e consciamente alle prese con esperienze e fantasie emotive molto intense e terrificanti.
Il confronto prolungato con tali fattori tende a frammentare e persino ad annientare le vittime a livello psicologico, sicchè il farvi fronte per vie indirette si rivela essenziale e risparmia molte sofferenze.
Tuttavia, quest’ultima modalità può diventare eccessiva. Le stesse difese comunicative che proteggono la nostra salute mentale possono diventare causa di disagio: il funzionamento della mente è pieno di paradossi di questo genere.
Dato che trattiamo gran parte dei contenuti emotivi più importanti attraverso doppi messaggi o messaggi in codice, dobbiamo arrivare a comprendere tale importante processo di mascheramento.
Il processo di decodificazione
La risposta del processo di decodificazione sta nei segreti del processo di messa in codice. Inoltre, una comprensione profonda di entrambe le forme di comunicazione (messaggio singolo e messaggio multiplo) può fornirci un mezzo eccezionale e di vitale importanza per comprendere noi stessi e gli altri.
Di regola, la comunicazione che ha luogo al di fuori della consapevolezza riguarda questioni che coinvolgono profondamente la persona che comunica.
Noi tendiamo a utilizzare messaggi in codice in presenza di un pericolo proveniente dal nostro mondo interno o dagli altri.
Perciò è nelle condizioni di vita che più generano tensione che impieghiamo una comunicazione a più livelli di significato. I messaggi, diretti e in codice, rappresentano altrettante risposte a stimoli esterni e interni.
Essi sono reazioni complesse e adattative cariche di significato e insieme di conseguenze nella realtà.
Noi emettiamo una grande quantità di comunicazione in codice
Noi emettiamo una grande quantità di comunicazione in codice. Molto al di là della nostra consapevolezza diretta, prendiamo una serie di percezioni o fantasticherie o fantasie diurne minacciose registrate a livello inconscio, e diamo loro l’aspetto di produzioni poetiche o narrative, sogni e sintomi, inceppi inattesi e comportamenti insoliti, strane dimenticanze e anche azioni violente o aggressive.
Pertanto, diventa decisivo individuare la situazione traumatica che spinge noi e gli altri a comunicazione indiretta, a comunicare attraverso espressioni indirette e in codice.
Spesso manifestiamo i primi segni di allarme in forme relativamente innocue: un sogno notturno o una fantasticheria diurna, un’azione innocua ma inattesa, un lapsus verbale, oppure un sintomo non troppo doloroso.
La decodifica degli stimoli
Se impariamo a decodificare gli stimoli di tali messaggi, potremmo avere l’opportunità di comprendere e ridurre la sofferenza provocata dai nostri bisogni nascosti e dalle percezioni disturbanti che riguardano il prossimo.
Se non riusciamo ad attuare questo genere di decodificazione, spesso risulteremo vulnerabili a nuovi sintomi e ad azioni pericolose.
La decodificazione in termini di stimolo evocatorio rappresenta il mezzo più importante di cui possiamo disporre per comprendere la parte inconscia della mente e la parte meno intenzionale dei comportamenti, propri e altrui”.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2015/10/COMUNICAZIONE-TITOLO.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2015-10-17 21:24:012021-02-08 16:02:35LA COMUNICAZIONE NELLA VITA QUOTIDIANA – Come decifrare i messaggi nascosti in essa.
L’ansia è una complessa combinazione di emozioni negative che includono paura, apprensione e preoccupazione. Spesso è accompagnata da sensazioni fisiche allarmanti come palpitazioni, dolori al petto o respiro corto, nausea, tremore interno. I segni somatici sono dunque un’iperattività del sistema nervoso autonomo e genera la classica risposta del sistema simpatico di allerta come nelle situazioni di pericolo e attiva comportamenti del tipo “combatti o fuggi”. La costante sollecitazione del sistema nervoso che si sente sempre “sotto attacco” a lungo andare produce uno stato di stress permanente e cronico nell’intero organismo.
Si distingue dalla paura vera e propria per il fatto di essere aspecifica, vaga o derivata da un conflitto interiore. L’ansia, si differenzia per gradazione e comparsa dei sintomi dall’attacco di panico ma anche l’ansia sembra avere le stesse e varie, componenti, tra le quali ne troviamo una cognitiva, una somatica, una emotiva, una comportamentale. Nell’ansia la componente cognitiva e comportamentale comporta aspettative di un pericolo diffuso e incerto.
Dal punto di vista somatico o fisiologico con l’ansia, il corpo prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d’emergenza): la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumenta e le funzioni del sistema immunitario e quello digestivo diminuiscono. Esternamente i segni somatici dell’ansia possono includere pallore della pelle, sudore, tremore e dilatazione pupillare.
Dal punto di vista emotivo, l’ansia causa un senso di terrore o panico, nausea e brividi. Dal punto di vista comportamentale, si possono presentare sia comportamenti volontari sia involontari, diretti alla fuga o all’evitare la fonte dell’ansia. Questi comportamenti sono frequenti e spesso non-adattivi, dal momento che sono i più estremi nei disturbi d’ansia.
Nella maggior parte dei casi in cui si verifica una alterazione della “regolazione emozionale” ossia ogni modificazione della capacità di regolare le emozioni mantenendole entro un range accettabile per l’individuo, emerge uno stato di ansia, è inoltre centrale la sensazione di allarme e una marcata alterazione del tempo interno.
Ogni individuo ha una propria storia di vita per cui ciascuno apparirà più vulnerabile rispetto a certi eventi di vita significativi dal punto di vista emotivo piuttosto che verso altri eventi che possono generare in esso più facilmente il vissuto di ansia.
Queste manifestazioni sono la formula più comune è più diffusa per esprimere una difficoltà di adattamento alla realtà. Un rifiuto alla adesione omologata, una ribellione del vero sè all’appiattimento.
La terapia, quindi, si propone di individuare gli eventi che scatenato l’ansia nell’individuo, coglierne i vissuti correlati e il significato che questi eventi assumono nella narrazione di vita dello stesso.
“L’uomo che coltiva per tutta la vita la propria vendetta mantiene le sue ferite sempre aperte”. F. Bacone
Con il termine rabbia si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto. Con la rabbia si prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stessi.
Di natura diversa è la vendicatività, cioè unostato emozionale complesso che apparentemente nasce come reazione al dolore e alla rabbia successivi a una perdita. Le risposte più comuni conseguenti alla sofferenza della perdita di un oggetto d’amore sono quelle della tristezza o della depressione, sentimenti questi che possono giungere a innescare anche rabbia e desiderio di vendetta. Per Charles W. “Le osservazioni cliniche suggeriscono che la tristezza può continuare a essere l’aspetto predominante della depressione solo fino a che il soggetto riesce a mantenere l’investimento libidico sul mondo oggettuale operando una deviazione dell’aggressività sul Sè. Gli stati d’animo di rabbia e vendetta, oltre che da ferite e delusioni, possono essere fatti precipitare da un conflitto narcisistico, cioè da un conflitto avente a che fare con il senso di colpa o da una esperienza di fallimento o di grave sbaglio con conseguenti sentimenti di perdita, in cui l’aggressività diretta contro il Sè viene secondariamente rivolta verso soggetti esterni.
Mentre il sentimento della rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività è totalmente e inutilmente distruttiva. Il soggetto è in stato di forte malumore, appare implacabile, spietato, crudele, insensibile, inesorabile e inflessibile. Vive in funzione della vendetta, che sembra essere diventata l’unico scopo della sua vita. In preda a forti passioni, cerca di sfruttare qualsiasi occasione per dar luogo ad azioni punitive o di ritorsione, e al primo posto nella lista dei suoi desideri c’è quello di pareggiare i conti (in realtà, di andare anche al di là di un pareggiare i conti). Il quadro clinico è il medesimo sia che il soggetto pensi e agisca sulla base della convinzione di essere impegnato in una operazione di giusta punizione, sia nel caso in cui voglia dar corso a una rappresaglia maligna.
Si osserva una tendenza a mettere in atto la vendetta anche contro tutte le possibili avversità e a prescindere dai “costi” dell’operazione e alle conseguenze che possono giungere anche all’annullamento di sè. L’individuo in preda a questo stato non permetterà che il male che gli è stato fatto (vero o presunto) resti impunito. Protesterà insistentemente di non essere inferiore a nessuno e di non voler sopportare gli abusi arrecatigli da chichesssia. La persona vendicativa può essere, a tratti, consapevole dell’irrazionalità e inadeguatezza dei suoi sentimenti e dei suoi scopi, ma tale consapevolezza viene rapidamente oscurata dalla forza travolgente dello stato d’animo che prova. Non sperimenta alcun senso di colpa. Non mostra alcuna preoccupazione circa le possibili conseguenze morali, sociali e personali delle sue azioni.
A un livello psicologico più profondo il mondo del Sè e degli oggetti viene modificato, con la conseguente produzione di una serie di alterazioni del comportamento, del pensiero, degli atteggiamenti, dei valori, delle aspettative e della tonalità dei sentimenti. Il campo psicologico e mentale si restringe, l’orizzonte si oscura, il pensiero diventa ossessivo, la realtà viene interpretata come persecutoria e con il passare del tempo la situazione diventa cronica. Senza il continuo e necessario confronto con qualcuno che sappia ascoltare e mettere confini e limiti al proprio pensiero l’unica realtà diventa la realtà vendicativa che sostituisce il reale condiviso e il soggetto si sgancia dal proprio elemento umano. Se l’oggetto della furia vendicativa non è nel raggio d’azione di colui che cova i sentimenti di vendetta, può verificarsi un aumento dello stato di tensione. Il soggetto può avere la fantasia che in quello stesso momento stiano per essere perpetuate nuove cattive azioni contro di lui. La somiglianza tra questi due aspetti e le fasi dello sviluppo paranoide è evidente, anche se non è necessariamente detto che nel soggetto vendicativo debba insorgere una condizione paranoide. Come in altre situazioni e stati d’animo di affettività intensa, la possibilità che una modificazione delle condizioni ambientali porti a una diminuzione della tensione è minima, perchè il soggetto tende a selezionare, per poi scartarli, tutti gli stimoli esterni che contraddicono il suo stato emotivo. Lo spirito vendicativo viene continuamente alimentato da una serie di immagini e fantasie sui presunti torti subiti. Il soggetto può anche dar luogo, consciamente e inconsciamente, ad atti nocivi per il suo immediato benessere, a partire dai quali procede poi verso lo stato di vendicatività, vissuto a quel punto come giustificato”.
Per Searles “Il fine conscio della vendicatività è il castigo, la punizione, nonchè un agognato stato di pace che ovviamente non si raggiungerà mai con il compimento della vendetta. Si osserva poi che di solito l’atto vendicativo stesso è altamente sovradeterminato. Da un punto di vista inconscio, il fine del soggetto vendicativo è quello di tenere nascosto un danno ancor più disastroso sofferto dal suo Io, un danno che costituisce la base di tutte le altre offese specifiche delle quali egli si lamenta. In questo senso l’atto vendicativo è un meccanismo di difesa la cui funzione è quella di nascondere traumi narcisistici più profondi. Si potrebbe forse dire che la vendicatività, o qualsiasi altra forma di ostilità, può servire come difesa contro la presa di coscienza di emozioni rimosse cariche di angoscia e la vendicatività sembra prestarsi in particolare alla rimozione dal dolore e dalla angoscia di separazione. Essa permette all’individuo di eludere o di postporre l’esperienza di questi due affetti, e della necessaria fase si separazione che porta la persona ad essere autonoma e adulta, perchè non ha veramente “rinunciato” alla persona verso cui è diretta la sua vendicatività: vale a dire, l’essere occupato con fantasie vendicative riguardanti quella persona serve, in effetti, a tenersi psicologicamente aggrappati ad essa.
I pazienti non si liberano dalla rabbia e dalla terribile sete di vendetta unicamente elaborando l’ostilità che è dentro di loro. Le radici della rabbia e della vendicatività saranno distrutte quando la terapia sarà riuscita a elaborare il dolore e l’angoscia da separazione situati nelle sfere più profonde, solo in quel momento il paziente potrà accostare i suoi simili in modo più flessibile e armonico”.
Psicologo Milano – Psicoterapeuta -Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 347.7966388
Tratto da:
Bollati Boringhieri – Rabbia e vendicatività
Harold F. Searles – La psicodinamica della vendicatività – Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhieri
Charles W. Socarides – La vendicatività: il desiderio di pareggiare i conti – Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhieri
Immagine: Michelangelo – Anima dannata (part.)
Tags: rabbia, vendicatività
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2015/05/VENDICATIVITA-TITOLOCOMPLETO-f.jpg5801116Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2015-05-28 08:40:012020-10-19 21:30:09RABBIA E VENDICATIVITA’ – Il desiderio di pareggiare i conti
“Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un giardino. Ci incontreremo laggiù”. J. Rumi
Oggi non parliamo direttamente di psicologia o di psicoterapia ma vogliamo proporre la poesia e la cultura di Mevlana Mohammed Rumi (nato nel 1207, morto nel 1273 a Konya) anche conosciuto come Jalāl ad-Dīn Muḥammad Rūmī (persiano: جلالالدین محمد رومی ) che è considerato il massimo poeta della letteratura persiana.
Scrive Kabir Helminski il traduttore delle sue poesie in italiano: “quando iniziai a tradurre le poesie di Rùmì non avrei mai immaginato dove questo cammino mi avrebbe condotto. Quella che all’inizio mi sembrò una città esotica e lontana, il cui profilo e il cui aspetto iniziavo appena a distinguere, il luogo della poesia, ora è diventata un luogo più familiare, le cui strade e cui vicoli, non sono più visti in prospettiva, ma mi fanno sentire a casa. Per me questo mondo è reale e presente come quello esterno in cui vivo, e anche di più, perchè è un mondo di significati e non soltanto di “cose”.
Il suo genio letterario si rivela nei suoi versi di poesia lirica del Dīwān o canzoniere, noto come Divan-i Shams-i Tabrīz, considerato il suo capolavoro, un ampio arazzo in cui sono intessute favole e scene di vita quotidiana dei suoi tempi.
Per chi ha famigliarità con la sua vita e con le sue opere Rùmì è qualcosa di più di un poeta. Il tema della sua poesia non è la vita ma qualcosa di molto di più della vita. Mentre la maggior parte dei poeti ci propone costruzioni di pensieri e sentimenti accuratamente preordinati Rùmì scrive a partire da un luogo che è al di là del pensiero e del sentimento come noi li conosciamo: “I tuoi pensieri sono la sbarra alla porta. Rimuovi il legno”.
La sua poesia non è tanto la ricerca di una verità e di una conoscenza immanente o di una scoperta da farsi nel mondo esterno, quanto l’elaborazione di un immediato “adesso”, l’improvviso canto interiore dell’esperienza che inonda questo mondo senza appartenervi. E’ la conoscenza che trabocca di parole, suoni e immagini. La sua è conoscenza del tutto e, insieme, delle sue parti.
Rùmì costruisce il modello di uno sterminato mondo interiore utilizzando come metafora ogni possibile evento e situazione del mondo esterno. Cerca di scardinare le convenzioni del pensare e del sentire, cerca di cambiare i condizionamenti e portare il ragionamento oltre gli infiniti preconcetti e pregiudizi tuttora presenti nelle nostre società.
E’ da segnalare infine che l’opera di Rùmì non è frutto di ambizione letteraria, ma è un desiderio di essere utile. Per lo più i suoi componimenti lirici sgorgavano spontaneamente ed erano trascritti da chi si trovava ad ascoltare.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2015/05/LA-PEOSIA-DI-RUMI-1.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2015-05-14 08:56:032023-08-23 10:35:22“Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un giardino. Ci incontreremo laggiù” J. Rumi
è il processo psichico che opera la sintesi dei dati sensoriali in forme dotate di significato.
Gli assunti relativi allo studio della percezione variano a seconda delle teorie e dei momenti storici. Da sempre l’uomo si è fatto delle domande circa la “realtà” che lo circonda. Abbiamo visto come per noi la realtà è sempre soggettiva e sempre ha necessità di essere condivisa almeno con un altro significativo al fine di evitare il deragliamento del pensiero e di realtà chiuse agli eventi, all’accadere della propria storia e agli altri. In questo scritto, tuttavia, vogliamo limitarci a esporre gli aspetti “meccanici” della percezione, questo pur all’interno della radice filosofica di F. Brentano (1874) che per primo gettava le basi per una psicologia fondata sull’atto, sulla consapevolezza, sull’intenzionalità, quest’ultima intesa come l’atto che rapporta il soggetto all’oggetto.
L’oggetto ha realtà sua propria, ma diviene esistente, in sede psichica, solo quando un atto rapporta ad esso l’essere umano, la psicologia dell’atto convoglia quindi l’attenzione verso il soggetto, verso il suo mondo e verso i dati immediati, qui ed ora, della sua esperienza.
La psicologia della percezione, anche chiamata psicologia della Gestalt che in tedesco significa “forma o configurazione” è una scuola teorica tedesca che nasce nel 1912, anno in cui Werthmeier pubblicò un articolo con i risultati di due anni di ricerche sul movimento apparente, condotte nell’Istituto di Psicologia di Francoforte.
Il motivo di questi studi era comprendere i meccanismi psichici che ci portano a interpretare la realtà, in questo scritto si prenderanno in considerazione solamente gli aspetti inerenti la percezione visiva degli oggetti e i motivi che portano a creare le “illusioni ottiche”.
Dunque è possibile operare una prima distinzione tra la sensazione legata agli effetti immediati ed elementari del contatto dei recettori sensoriali con i segnali provenienti dall’esterno e in grado di suscitare una risposta. La percezione corrisponde quindi all’organizzazione dei dati sensoriali in un’esperienza complessa ovvero al prodotto finale di un processo di elaborazione dell’informazione sensoriale da parte dell’intero organismo.
Con lo sviluppo degli studi sulla psicologia della percezione, il centro dell’indagine sui processi percettivi passa dalla precedente concezione elementaristica alla percezione come risultato di un’interazione e organizzazione globale di varie componenti. Prima di esporre le varie teorie che si sono occupate della percezione, è opportuno comprendere i processi che ne stanno alla base. Tali processi sono di due tipi: la categorizzazione e l’identificazione.
La categorizzazione è il processo mediante il quale si assegna un oggetto a una categoria. Ad esempio, un oggetto di forma sferica, liscio e con un picciolo in mezzo fa parte della categoria frutta. Dopo aver fatto questo dobbiamo “identificare l’oggetto”, ovvero dargli un nome. L’oggetto liscio e sferico col picciolo in mezzo si chiama mela (processo di identificazione). Sia la categorizzazione che l’identificazione richiedono processi cognitivi elevati, come ad esempio tutto ciò che sappiamo sull’oggetto, le impressioni che ci siamo fatti su di esso e così via.
Ci sono due tipi di stimoli che noi usiamo per crearci la nostra rappresentazione percettiva degli oggetti: lo stimolo distale e quello prossimale. Lo stimolo distale è ciò che noi percepiamo, la presenza fisica dell’oggetto. Lo stimolo prossimale è quello stimolo da cui noi dobbiamo ricavare informazioni per arrivare allo stimolo distale. Il fatto che la mela è rotonda, che ha il picciolo in mezzo etc., fanno tutti parte dello stimolo prossimale, perché grazie a queste informazioni io arrivo a capire che quella è una mela, quindi allo stimolo distale. In sintesi, il processo della percezione richiede che il sistema percettivo ricopi le informazioni contenute nello stimolo prossimale per crearsi la rappresentazione percettiva dell’oggetto, o stimolo distale. Tuttavia questo passaggio non avviene sempre in modo corretto: ogni tanto il sistema percettivo fa degli errori, e quindi ci fa sperimentare quelle che si chiamano illusioni.
Una illusione è una rappresentazione sbagliata che noi ci siamo fatti di un oggetto.
L’idea portante dei fondatori della psicologia della percezione è che il tutto fosse qualcosa di diverso e più complesso del risultato delle singole parti. Una idea della psicologia naturalmente diversa dalla matematica dove 2+2 fa 4, per un essere umano la costruzione razionale lineare e razionale delle cose è più complessa e non scientificamente collocabile, allo stesso modo in cui le caratteristiche di una società non corrispondono a quelle degli individui che la costituiscono. Da questo ragionamento nasce la famosa massima: “Il tutto è più della somma delle singole parti”.
Le teorie della psicologia della percezione si rivelarono altamente innovative, in quanto rintracciarono le basi del comportamento nel modo in cui viene percepita la realtà percettiva, anziché per quella che è realmente; quindi il primo pilastro delle teorie della psicologia della percezione fu costruito sullo studio dei processi percettivi e in una percezione immediata del mondo fenomenico.
Quello che noi siamo e sentiamo, il nostro stesso comportamento, sono il risultato di una complessa organizzazione che guida anche i nostri processi di pensiero. La stessa percezione non è preceduta dalla sensazione ma è un processo immediato, influenzato dalle passate esperienze solo in quanto queste sono lo sfondo dell’esperienza attuale, come combinazione delle diverse componenti di un’esperienza reale-attuale. La capacità di percepire un oggetto quindi deve essere rintracciata in qualcosa di più e di diverso e non banalmente solo ad una immagine focalizzata dalla retina.
Per comprendere il mondo circostante si tende a identificarvi forme secondo schemi che ci sembrano adatti, scelti per imitazione, apprendimento e condivisione e attraverso simili processi si organizzano sia la percezione che il pensiero e la sensazione ad esso associata; ciò avviene di solito del tutto inconsapevolmente.
Con particolare riferimento alle percezioni visive, le regole principali di organizzazione dei dati percepiti sono:
1. buona forma (la struttura percepita è sempre la più semplice);
2. prossimità (gli elementi sono raggruppati in funzione delle distanze);
3. somiglianza (tendenza a raggruppare gli elementi simili);
4. buona continuità (tutti gli elementi sono percepiti come appartenenti ad un insieme coerente e continuo);
5. destino comune (se gli elementi sono in movimento, vengono raggruppati quelli con uno spostamento coerente);
5. figura-sfondo (tutte le parti di una zona si possono interpretare sia come oggetto sia come sfondo);
6. movimento indotto (uno schema di riferimento formato da alcune strutture che consente la percezione degli oggetti).
Fondamentalmente possiamo dire che ciò che prima era stato considerato un processo passivo, il percepire, veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo; come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali, in particolare le figure che emergono rispetto allo sfondo, ovvero l’oggetto e il suo contesto di riferimento che può poi essere paragonato al rapporto tra individuo e ambiente o contesto sociale e culturale.
Gli studi della psicologia della percezione hanno approfondito anche gli aspetti relativi al comportamento e all’apprendimento, partendo dalla conoscenza strutturale di alcuni schemi di pensiero è nato un modello psicoterapeutico definito “terapia della Gestalt” che sarà sviluppato in un prossimo scritto.
“Stanno giocando un gioco. Stanno giocando a non giocare un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco” R.D. Laing
PARANOIA E SISTEMI RELAZIONALI
Quando la mente è considerata in termini di “extracelebrale” e “intracelebrale”, localizzare la patologia di un individuo nella mente, non indica se è all’interno o all’esterno della persona stessa.
La patologia può essere nell’individuo, nel suo contesto sociale o nell’interazione tra i due. Il confine artificiale diviene sfumato, perciò l’approccio al sintomo può cambiare.
Da questo punto di vista il tipo di terapia che ci si propone di illustrare si rifà a tre assiomi. Ciascuno ha un’accentuazione completamente diversa rispetto all’assioma relativo alla terapia individuale
Il primo assioma
Primo, la vita psichica di un individuo non è un processo totalmente interno.
L’individuo influenza il suo contesto e ne è influenzato tramite costanti e ricorrenti sequenze interattive.
L’individuo che vive, per esempio, in una famiglia è membro di un sistema sociale a cui deve adattarsi.
Le sue azioni sono regolate dalle caratteristiche del sistema, e queste caratteristiche riguardano anche gli effetti delle sue azioni passate.
Il soggetto quindi risponde alle tensioni in altre parti del sistema a cui si adatta e può contribuire in modo significativo a provocare tensioni in altri membri del sistema.
L’individuo può essere visto come un sottosistema o una parte del sistema tenendo però conto del tutto.
Il secondo assioma
Il secondo assioma che sottende questo genere di terapia è che i cambiamenti nella struttura famigliare contribuiscono ai cambiamenti nel comportamento e nei processi psichici interiori dei componenti del sistema.
Il terzo assioma
Il terzo assioma è che quando uno psicoterapeuta lavora con un paziente o con una famiglia, il suo comportamento diventa parte del contesto.
Lo psicoterapeuta si unisce per formare un nuovo sistema terapeutico.
Quel sistema poi regola il comportamento dei suoi membri.
Questa teoria, e cioè che il contesto influenza i rapporti interiori; che i cambiamenti di contesto producono cambiamenti nell’individuo; che il comportamento del terapista è significativo nell’attuare un cambiamento, hanno sempre appartenuto al fondamento razionale della terapia.
Sono stati il retroterra della letteratura sulla psicoterapia.
Tuttavia non sono mai divenuti centrali nella prassi psicoterapeutica, dato che l’artificiosa dicotomia tra individuo e ambiente continua a esistere.
Un esempio
Un esempio si può ricavare da concetti di paranoia e dalle modalità di pensiero paranoico, perchè è proprio in questo campo che una comprensione del contesto del paziente è essenziale.
Eppure, in termini intrapsichici, la paranoia è vista come un disturbo formale del pensiero, in cui la percezione degli eventi è determinata dai processi interni.
Secondo quanto scrive Haron Beck:
“tra le persone, la sequenza percezione-cognizione-emozione è ampiamente dettata dal carattere di richiesta della situazione-stimolo… [tuttavia] la persona che soffre di paranoia e quindi di un disturbo paranoico può astrarre in maniera selettiva quegli aspetti della sua esperienza che sono coerenti con la sua idea preconcetta di persecuzione e può dare dei giudizi arbitrari che non hanno fondamento in un reale condiviso.
Questi di solito, si manifestano leggendo, negli eventi, contenuti e significati nascosti.
Inoltre nella paranoia il soggetto tende a generalizzare eccessivamente episodi isolati di intrusione, discriminazione e così via.
In questi termini, la paranoia è un fenomeno psichico interno che solo tangenzialmente si riferisce alla realtà.
Confrontiamo questo passo con una concezione che tenga in debito conto il contesto ambientale.
Erving Goffman
Erving Goffman che ha studiato la paranoia, in uno studio su pazienti sofferenti di sintomi paranoici ha rilevato che nei primi stadi di sviluppo del sintomo il contesto sociale è complementare al paziente che sostiene la propria malattia.
Gruppi sociali significativi, quali colleghi, compagni di lavoro, cercano di trattenere il paziente, giacchè i sintomi hanno un effetto distruttivo.
Generalmente lo evitano e lo escludono dalle decisioni.
Oppure si servono di uno stile d’interazione allegro, pacificante e non impegnato, che attenua il più possibile la partecipazione del paziente.
Lo possono perfino spiare, o possono formare una rete di complice intesa, in modo da indurlo e un pò a “forzarlo” a ricevere un trattamento psicoterapeutico.
Il loro comportamento per quanto ben intenzionato e il loro atteggiamento di segretezza tuttavia inducono il paziente a sviluppare ulteriori sintomi paranoici e lo privano di spontanee reazioni correttive e di auto-ricerca di un aiuto esterno, fino ad arrivare alla conseguenza ultima di costruire intorno al paranoico una vera e propria comunità paranoica che a questo punto si costituisce su elementi di realtà.
Il comportamento paranoico
Si è visto che il comportamento paranoico, la paranoia e il pensiero paranoico possono essere attivati in modo sperimentale anche in professionisti senza tratti paranoici e con un alto grado di istruzione (a dimostrazione del fatto che il grado di istruzione non protegge dai sintomi descritti), ad esempio mediante esperienze comunitarie come quelle attuate negli Istituti della Tavistock Clinic.
In una situazione sperimentale che coinvolge un gruppo ampio, dai trenta ai cinquanta partecipanti sono seduti in cerchi concentrici che vanno da tre a cinque.
I membri della facoltà sono sparsi nei cerchi vestiti con abiti di lavoro, con una espressione impassibile e silenziosi.
Al gruppo è stato dato un compito ambiguo: quello di studiare il proprio comportamento.
All’interno di questa struttura d’esercizio senza leader, i partecipanti fanno affermazioni che non sono dirette a nessuno in particolare. A causa della disposizione in cui sono seduti, metà di essi hanno le spalle voltate e non possono vedere colui che parla.
Non si sviluppa dialogo.
Una dichiarazione può essere seguita da altre in un posto diverso.
In tal modo le comunicazioni non sono convalidate da reazioni di conferma o di dissenso da parte di altri.
Ripetutamente si nota la rapida apparizione di comportamenti singoli di sospetto e confusione sulla natura della realtà sperimentata, segue, come sempre all’interno di un gruppo con una comunicazione non chiara, la ricerca di un bersaglio, l’identificazione di “capri espiatori” e infine la definizione di alcuni membri del gruppo come “persecutori onnipotenti”.
In questo contesto sperimentale
In questo contesto sperimentale, la paranoia e il “pensiero paranoico” invariabilmente si sviluppa ed è espresso anche da quei partecipanti che hanno invece sempre avuto una vita e una storia di sviluppo assai diverse e con un adeguato adattamento alla realtà.
Non sono un amante degli esperimenti, che in psicologia, oltretutto, non garantiscono nulla di scientifico dal momento che ogni persona è singola, particolare e non standardizzabile, però può essere utile osservare come nascono alcuni comportamenti che confermano che l’esperienza individuale dipende dalle caratteristiche idiosincratiche dell’individuo nel contesto di vita in cui si trova ad operare in un dato periodo della sua vita.
In pratica, in determinate condizione e contesti, la paranoia si sviluppa anche in soggetti a basso rischio.
Quindi in questa struttura teorica, in particolare rispetto alla paranoia non si ignora l’individuo.
Il presente di un soggetto è formato dal suo passato e dalle condizioni in cui vive.
Parte del suo passato sarà presente, contenuto e modificato dalle attuali interazioni.
Sia il suo passato che le sue qualità distintive sono parte del contesto sociale, che influenzano nella stessa misura in cui il contesto influisce sull’individuo.
Ciò che emerge è il rispetto per l’individuo, per la persona nel suo contesto, il tenere in considerazione non solo le caratteristiche inerenti o acquisite del soggetto ma anche la sua interazione nel presente.
L’uomo è dotato di memoria; è il prodotto del suo passato. Allo stesso tempo, le sue interazioni con le situazioni in cui vive sostengono, qualificano o modificano la sua esperienza e il suo comportamento futuro.
La persona che ha sintomi paranoici
La persona che ha sintomi paranoici, come di qualsiasi altro sintomo che ne impedisce la spontanea espressione di tutte le sue potenzialità è una persona che soffre e ha sofferto, la sua storia di vita lo ha portato a trovare forme di adattamento che si rivelano poi essere la fonte del sintomo.
Mi trovo spesso a pensare, quando ascolto queste storie, che anche io probabilmente, nelle stesse condizioni avrei sviluppato quel sintomo.
Tuttavia non è utile una comprensione intellettuale del disturbo, solo quello non serve, e può essere, anzi, fonte di ulteriore frustrazione.
Quello che è utile in questi casi è cercare di uscire dal cerchio chiuso della coazione a ripetere inserendo un elemento umano, trovare una forma nuova e “sana” di comunicazione.
Una delle possibilità è quella di sperimentare una nuova modalità di relazione con un terapeuta, che si pone fuori dalla rete relazionale e sociale in cui la persona è inserita e che garantisca appunto il rispetto e la comprensione della propria esperienza e dei propri valori e orientamenti personali, che garantisca la riservatezza, il rispetto e la comprensione della propria storia.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2019/02/le-perle-ai-porci.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2015-03-18 15:01:482020-10-12 12:05:55PARANOIA E SISTEMI RELAZIONALI
si basa su indagini sperimentali e ha influenzato profondamente, negli ultimi decenni, la psicoterapia e la psicologia clinica.
E’ necessario fornire una definizione di sistema cognitivo.
Con il termine cognizione ci si riferisce a quelle funzioni che permettono all’organismo di raccogliere informazioni dal proprio ambiente, di analizzarle, valutarle, trasformarle per poi utilizzarle per agire nel mondo circostante. In termini finalistici ed evoluzionistici, la cognizione permette di adattare il comportamento dell’organismo alle esigenze dell’ambiente o di modificare l’ambiente in funzione dei propri bisogni. L’analisi delle funzioni cognitive, che sono: percezione, intelligenza, ragionamento, giudizio, memoria a breve e a lungo termine, rappresentazioni interne, linguaggio, pensiero, può essere condotta a livello strutturale quando si vogliono spiegare le “modalità” del funzionamento, o a livello “dinamico” quando si vogliono spiegare le ragioni di un certo funzionamento.
Quindi per sistema cognitivo si intende sia l’intera gamma di funzioni e meccanismi che permettono di elaborare pensieri, sia il contenuto dei pensieri medesimi.
La premessa alla base delle teorie cognitive e della psicologia cognitivista inerenti i disturbi emozionali è che una disfunzione deriva dall’interpretazione personale dei singoli eventi. I comportamenti e l’emergere dei sintomi connessi a tali interpretazioni personali contribuiscono inoltre al mantenimento del problema emozionale stesso.
Uno degli approcci più importanti della psicologia cognitiva si fonda sul principio che i “pensieri irrazionali” siano la fonte del disturbo emozionale e delle sue conseguenze comportamentali. I pensieri irrazionali consistono essenzialmente in imperativi (“devo”), comandi e presupposti che conducono a elaborazioni illogiche dei disturbi emozionali. Tali credenze vengono spesso rinforzate dalla società o dal sistema relazionale in cui è inserito il soggetto che ne soffre. Tali convinzioni e assunzioni diventano poi rappresentazioni relativamente stabili della coscienza immagazinata nel sistema di memoria e vengono chiamate “schemi”. Con il termine “schema” si indica una struttura che una volta attivata influenza il processo di elaborazione dell’informazione modellando le interpretazioni delle esperienze e condizionando il comportamento. I difetti di elaborazione dell’informazione nei disturbi emozionali si evidenziano nelle credenze, nelle distorsioni cognitive e nei pensieri automatici negativi del paziente ed è quindi opportuno che vengano sistematicamente confutate nel corso delle sedute terapeutiche.
La terapia cognitiva ha come fulcro il problema sintomatologico del paziente; il sintomo che porta in seduta. Il trattamento si ispira a un approccio empirico di collaborazione in cui paziente e terapeuta lavorano insieme, mossi da mentalità scientifica, con lo scopo di risolvere gli aspetti concreti del problema. Si presuppone quindi che l’uomo sia un essere fondamentalmente razionale. In questo modello non è previsto il concetto di inconscio che viene considerato un costrutto teorico non scientifico e che quindi, semplicemente, non esiste. Il monitoraggio continuo dei sintomi del paziente è un modo per verificare le ipotesi riguardanti i fattori che favoriscono il mantenimento dei problemi del paziente e per valutare gli effetti degli interventi terapeutici. Semplici esperimenti, sotto forma di strategie comportamentali, sono impiegati come mezzo per far comprendere al paziente l’approccio cognitivo e per testare pensieri e convinzioni disfunzionali. Gli esercizi da realizzare a casa sono una parte essenziale del trattamento, i pazienti, infatti, vengono incoraggiati a svolgere specifici compiti tra una sessione terapeutica e l’altra.
Nella psicologia cognitiva, la terapia è un trattamento guidato concettualmente, in accordo con la valutazione che il terapeuta fa del caso. Una vasta gamma di tecniche cognitive, interpersonali, comportamentali viene utilizzata a tal fine; molte di queste tecniche sono comunemente usate in altri ambiti clinici ma qui sono impiegate solo se si giustificano, all’interno della concettualizzazione cognitiva dei casi, come strumenti adeguati e utili. Queste procedure sono spesso proposte per scopi precisi e modificate in modo da massimizzare i cambiamenti cognitivi a livello di convinzioni o giudizi.
E’ possibile considerare la terapia cognitiva come un processo educativo, dove le nuove informazioni vengono proposte in maniera didattica, anche se la modalità principale di presentazione resta quella del metodo socratico, vale a dire una serie di domande volte a sondare la comprensione e l’esperienza del paziente e a rimodellare le sue interpretazioni e le sue credenze. Il dialogo socratico ha il vantaggio di instaurare un clima di collaborazione e permette di raggiungere una conoscenza dettagliata della “realtà interna” del paziente, primo, fondamentale traguardo verso l’effettiva modificazione dei contenuti mentali. Il metodo socratico consente al paziente di raggiungere una maggiore consapevolezza degli aspetti distorti nella elaborazione cognitiva e permettere all’individuo di occupare un ruolo attivo nella modificazione del suo comportamento e dei suoi pensieri.
La terapia cognitiva classica consiste in 10-15 sedute a cadenza generalmente settimanale, le sedute iniziali di un trattamento di psicologia cognitiva devono essere dedicate alla valutazione e alla concettualizzazione del caso, alla formalizzazione del rapporto con il terapeuta e all’introduzione del modello cognitivo. Con il progredire del trattamento, l’enfasi si sposta sulla modificazione dei comportamenti e delle cognizioni coinvolte nel mantenimento del disturbo. Nella fase iniziale l’attenzione è focalizzata sui sintomi che la terapia si propone di alleviare. Una volta alleviati i sintomi il trattamento può concentrarsi sulle cause sottostanti, concettualizzate come fattori di rischio in quanto predispongono a eventuali ricadute. La conclusione del lavoro segue un andamento graduale, in quanto al completamento delle sedute settimanali seguono alcune sedute di mantenimento più diluite nel tempo. Si consigliano, inoltre, controlli longitudinali a 6-12 mesi dal termine del trattamento, per accertare il mantenimento nel tempo dei vantaggi terapeutici. Questo come impostazione puramente teorica dal momento che, ovviamente, la specificità dei fattori individuali, l’eventuale cronicità del disturbo, la forza di eventuali benefici secondari sul disturbo primario, può richiedere modifiche allo schema proposto che inoltre non può essere applicato su disagi di struttura complessa e di natura organica.
Psichiatra e psicanalista statunitense (1892 – 1949) può essere considerato, insieme a K. Horney e a E. Fromm, il massimo esponente della tendenza culturalista neo-freudiana negli USA.
Ebbe una grande influenza nell’ambiente psicoanalitico specie per l’idea che egli aveva del disturbo mentale e per il suo modo di impostare il rapporto con il paziente
Il pensiero
Sullivan sosteneva che tutti i comportamenti umani sono la somma delle varie motivazioni che influiscono sulla persona in ogni momento specifico. Il senso della scelta è un riflesso nella coscienza della convergenza di vari motivi che si riconducono ai bisogni di soddisfacimento e di sicurezza.
Dunque il suo contributo sulle tecniche del colloquio clinico, in cui delineava un approccio meno nosografico e più interpersonale rispetto ai modelli classici, ha avuto molta influenza nella psichiatria statunitense degli anni tra il ’40 e ’50.
Il colloquio
Nel suo approccio, il colloquio diviene uno strumento non solo diagnostico, ma anche di analisi delle dinamiche relazionali usate dal soggetto, di cui questi non è sufficientemente consapevole.
Il superamento di tali “disattenzioni selettive” nei confronti dei propri stessi processi relazionali diviene quindi parte del processo terapeutico.
Nel 1954, come psicologo, psicologo clinico e psicoterapeuta, nel delineare lo sviluppo della psicologia individuale pose l’accento sui bisogni di sicurezza e sui vissuti di angoscia, interpretati come risposta alla frustrazione dei bisogni primari.
Il campo relazionale
Nell’analisi della personalità operò uno spostamento dai rapporti e conflitti intrapsichici alle dinamiche interpersonali, formulando una teoria basata sulla nozione di “campo relazionale”, secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come “personificazioni” interiori anche in situazioni di isolamento.
Quindi in quest’ottica il rapporto terapeuta-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato, ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale, il terapeuta, sviluppa un maggiore atteggiamento empatico riconoscendo l’importanza delle determinanti ambientali e sociali e si propone di individuare insieme al paziente, con rispetto e ascolto, gli eventi scatenanti del malessere e le motivazioni dell’isolamento per comprendere i vissuti correlati e il significato che questi eventi assumono nella narrazione di vita dello stesso.
Spesso si pensa che i problemi di tipo psicologico necessitino di un intervento lungo e costoso.
Con un percorso di psicoterapia integrata a volte si verificano condizioni particolarmente favorevoli e il problema si sblocca in poche sedute permettendo alla persona di recuperare la fiducia nelle proprie capacità personali.
Il Dott. Donato Saulle, opera come psicoterapeuta e psicologo clinico a Milano e propone colloqui di psicoterapia.
A tutti può capitare di attraversare periodi in cui il proprio senso di benessere sembra svanire, di non riuscire più a svolgere adeguatamente le varie attività quotidiane, di non sentirsi a proprio agio con gli altri, di vivere un momento di difficoltà emotiva o sentimentale.
A volte queste difficoltà si prolungano nel tempo, ci impediscono di vivere come vorremmo e nonostante tutti i nostri sforzi non riusciamo a superarle e sentiamo il bisogno di parlarne liberamente con qualcuno che sappia ascoltare.
In questo caso può essere utile un aiuto esterno per risolvere il problema che se affrontato e superato può contribuire alla propria crescita personale e al raggiungimento di un maggior grado di serenità e benessere.
Chiedere, anche con un solo colloquio, il parere di uno psicoterapeuta, significa avere la totale riservatezza garantita dal segreto professionale e l’opinione di un professionista per tutti quei problemi che non si riescono a risolvere da soli.
Chiedi informazioni in qualsiasi momento e senza impegno.
“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”
Formazione
Laureato in Psicologia presso l’Università degli Studi di Pavia
Psicologo
Psicologo Clinico iscritto all’Albo degli Psicologi della Lombardia n. 03/12876
Biennio di specializzazione in psicoterapia Cognitivo Comportamentale
Biennio di specializzazione in piscoterapia a indirizzo Psicodinamico
Psicoterapeuta
Iscrizione all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia n. 03/12876
Tessera di iscrizione all’Albo degli Psicologi e Psicoterpeuti della Lombardia n. 03/12876 La documentazione relativa al percorso formativo e professionale dichiarato è disponibile, su richiesta del paziente, presso lo studio del Professionista.
Convegni – Seminari – Workshop
Ho assistito ai seguenti incontri:
“Dialogo sulla cultura e il linguaggio”
Dott. Paolo Crepet
Festival della Filosofia, Mantova, Piazza Castello, 09.09.2000
“La psicoanalisi e l’adolescenza”
Prof.ssa Silvia Vegetti Finzi
Ciclo di Convegni promosso da Associazione Culturale Punto Rosso, Milano, 26.02.2001
“Teoria dell’attaccamento e psicopatologia dell’adolescenza”
Dott. E. De Vito, Università degli Studi di Pavia, Pavia, 21.09.2001
“La memoria umana: modelli ed esperimenti”
Prof. M.Shiffrin e Prof. E.Pessa
Ciclo di Convegni tenuti presso Università di Pavia, Pavia, 04.10.2001
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