La psicoterapia ci aiuta ad affrontare molteplici problemi, disturbi e difficoltà personali.
Nel creare, adattare e scegliere i diversi strumenti terapeutici con cui ”toccare i tasti giusti”, gli psicoterapeuti devono essere particolarmente creativi pur nell’osservanza della teoria di riferimento.
Una delle tecniche più adoperate nella psicoterapia è la scrittura e in questo articolo si spiega perché viene impiegata come strumento terapeutico.
Esistono diversi modi di utilizzare la scrittura come strumento terapeutico, tutti basati sul mettere per iscritto i processi mentali quali pensieri, dubbi, desideri, obiettivi, piani, ma anche sentimenti ed emozioni.
Tuttavia, mettere nero su bianco tutto ciò, senza il supporto e i consigli di un professionista, può rivelarsi controproducente.
Vale a dire che per trarre dei benefici terapeutici dalla scrittura, deve essere ”orientata”, ritualizzata e basata su indicazioni ben precise.
Con quali pazienti si usa la scrittura come strumento terapeutico?
Nonostante la scrittura intesa come strumento terapeutico possa essere impiegata in diverse situazioni e per diversi motivi, è una tecnica adatta a precisi pazienti e problemi.
Anzitutto, si tratta di una tecnica consigliata solo nel trattamento di pazienti che abbiano sufficienti capacità di lettura e scrittura per affrontare al meglio il compito che viene loro assegnato.
In altre parole, questo metodo è rivolto a persone che non provino ansia nel dover scrivere e che se la sentano, in modo totalmente volontario, di portare a termine il compito senza sentirsi incapaci o inferiori.
A tal proposito, tale compito deve essere ”una scommessa sicura”.
In secondo luogo, la scrittura aiuta molto i pazienti che hanno difficoltà ad esternare verbalmente ciò che accade loro e che provano, pensano o desiderano.
Per queste persone scrivere è un modo per ”buttare fuori” tutto quello che li riguarda, senza subire pressioni né provare vergogna.
Scrivere i propri sentimenti, pensieri e desideri è uno dei modi migliori di fare ordine nella propria testa.
In questo modo, al caos subentrano idee tangibili e chiare.
La scrittura, dunque, può rivelarsi particolarmente adatta per le persone introverse.
Quando è opportuno impiegare la scrittura come strumento terapeutico?
Una volta appurato che il paziente è in grado di affrontare le attività di scrittura a fini terapeutici, bisogna adattarle al suo caso.
Le situazioni in cui si opta più spesso per un terapia basata sulla scrittura sono le seguenti:
Gestione di sentimenti negativi riguardo eventi del passato.
Ricordi traumatici.
Elaborazione di un lutto.
Accettazione di cambiamenti del proprio ruolo e del ciclo vitale.
Necessità di guardare i problemi in prospettiva.
Necessità di miglioramento dell’autostima.
Prevenzione delle ricadute (sia nel caso delle dipendenze sia nel caso di disturbi come ansia e depressione).
Oltre che nei casi sopracitati, tutti riguardanti la psicologia clinica, la scrittura può rivelarsi uno strumento terapeutico anche nei percorsi di crescita personale.
Quando si tratta di definire i propri obiettivi ed elaborare un piano d’azione per raggiungerli, la scrittura può rivelarsi la strategia migliore.
Avere davanti ai propri occhi, su carta, ciò che si vuole realizzare e pensare a come riuscirci è anche una strategia motivazionale che ci permette di concentrarci al meglio sui nostri obiettivi.
Quali sono le attività di scrittura terapeutica più comuni?
La scrittura terapeutica viene adoperata per raggiungere obiettivi ben precisi.
Tuttavia, comprende diverse attività raggruppabili in tre categorie: lettere, frasi o messaggi e diari.
La lettera è piuttosto diffusa in psicoterapia, di solito al paziente viene chiesto di scrivere una lettera a se stesso, a qualcun altro o persino a un sintomo.
Nella lettera, il paziente deve esprimere tutto quello che pensa o prova e durante la seduta psicologica potrà discuterne col terapeuta.
Altrimenti si utilizzano frasi e messaggi quasi sempre rivolti a se stessi in cui si cerca di porre l’attenzione sulle proprie qualità fondamentali per automotivarsi ed evitare di scontrarsi con i soliti ostacoli.
In questo caso al paziente viene chiesto di scrivere dei post-it e di posizionarli in un luogo visibile oppure gli viene suggerito di mettere nel proprio portafogli una frase, un biglietto che possa aiutarlo a ritrovare la carica e la motivazione nel momento del bisogno.
Infine, anche i diari vengono spesso utilizzati in terapia.
Questa attività prevede che il paziente affronti ogni giorno un argomento (che va scelto con cura).
In questo modo, il paziente può vedere con i suoi occhi l’evoluzione del suo problema, i suoi miglioramenti e i suoi cambiamenti, tuttavia, affinché il diario si riveli utile, non basta mettere su carta i propri pensieri, bensì è necessario analizzarne il contenuto con il terapeuta.
Solo in questo modo sarà possibile sfruttare al massimo le potenzialità del diario, ciò non toglie che il paziente possa provare un certo sollievo già scrivendo un diario personale.
Passavo e ripassavo per le stesse strade, senza riconoscerle, senza riconoscermi.
Per un attimo mi son detto: “smettila di andare e venire così, che cosa cerchi dunque di ritrovare… o di perdere? Qui non ci sei più, rientra a casa tua”.
Ma un attimo dopo: “ma no, sei ancora qui, sei anche qui, sei sempre lo stesso, qui e laggiù, oppure non sei da nessuna parte”.
J.-B. Pontalis
La bibliografia su Bruce Springsteen è una delle più ampie tra quelle dedicate ai protagonisti della musica rock.
L’artista del New Jersey è uno degli esponenti della musica popolare a cui sono stati dedicati più libri biografici, saggi di critica e tesi universitarie.
La prima biografia dedicata al cantautore del New Jersey, “Born to Run. The Bruce Springsteen Story” fu scritta nel 1979 dal giornalista Dave Marsh e divenne un best seller.
A partire dagli anni ottanta il cantautore è stato oggetto di studio per il suo contributo alla rilettura, anche critica, del cosiddetto «sogno americano» e per la sua visione politica e sociale.
In seguito molti autori hanno affrontato la musica e la poetica di Springsteen che, grazie alle sue opere, stava diventando una delle voci più influenti nel mondo della cultura statunitense.
Born to run – L’autobiografia
Springsteen dedica molto tempo a descrivere accuratamente le sue origini, la sua infanzia in un quartiere duro ed operaio del New Jersey, con un padre severo e difficile e la sua lotta per cercare di trovare, personalmente e professionalmente, la propria identità (termine che usa spesso).
È in questo contesto che nasce la sua passione per la chitarra, per la musica e, in seguito, per cantare e comporre.
Ha questa capacità di scrivere con grande sensibilità quello che sente, descrivendo il modo in cui le sue relazioni e il mondo in cui è cresciuto influenzano il suo modo di suonare, il modo di interagire con i vari gruppi e i temi delle sue canzoni e dei suoi album.
Una cosa che colpisce è la sua determinazione nel perseguire il desiderio che sentiva dentro di riscatto, la sua ambizione, per se stesso e per la sua musica.
Ad un certo punto arriva un successo straordinario, raggiunge un enorme riconoscimento pubblico. E’ in quel periodo che decide di viaggiare attraverso gli Stati Uniti assieme ad un suo caro amico.
Mentre attraversano il Texas in auto, si fermano in una cittadina in festa, una fiera di paese, con musica e balli e questa scena, racconta, gli provoca un profondo senso di solitudine e angoscia.
Springsteen ne rimane paralizzato.
Scrive: alla fiera c’è musica, un palchetto, un gruppo che suona nella serata gelida. Uomini e donne ballano abbracciati, io li ossservo e di punto in bianco vengo colto dalla disperazione e dall’invidia per quelle coppie e del loro rituale di fine estate, i piccoli piaceri che tengono unite quelle persone e la loro città. Certo, per quanto ne so potrebbero odiare quel buco desolato, potrebbero detestarsi l’un l’altro e mettersi allegramente le corna: come escluderlo?
In quel momento, però, penso solo che vorrei essere fra loro, essere uno di loro.
Ma so che non posso.
Li guardo, non posso fare altro. Li guardo… e prendo nota. Non mi immischio e se lo faccio i miei termini sono talmente rigidi da soffocare l’anima di qualsiasi sviluppo positivo di tutto ciò che è reale.
In questa cittadina sul fiume, la mia vita di osservatore, di attore che si tiene prudentemente alla larga dalla mischia emotiva, dalle conseguenze del caos connaturato al vivere e all’amare, mi presenta il conto.
Ho trentadue anni e quello che un tempo sapeva anestetizzarmi l’anima e la mente non funziona più.
Ho appenaeseguito un impeccabile tuffo nel mio abisso, lo stomaco è in centrifuga… Dopo un’ora di tormento, chiedo a Matt di tornare indietro, a quell’ultima città che abbiamo lasciato: “subito per favore”. Matt non mi chiede perchè e torna.
Ho bisogno di quella città, soprattutto ho bisogno di allontanarmi da quella festa al più presto. Mi manca l’aria.
Non so dire perchè, sento solo la necessità di mettere le radici da qualche parte prima di dissolvermi nell’etere.
Quando arriviamo è quasi l’alba, è buio pesto e non c’è anima in giro. Mi viene da piangere, ma le lacrime non escono. Non ho mai provato una angoscia simile. Perchè quì? Perchè stasera? Non lo so.
So solo che, con il passare degli anni, il peso dei nodi irrisolti si fa molto più pesante, il prezzo sempre più alto.
Forse avevo tagliato un laccio di troppo, avevo fatto eccessivo affidamento sulla mia infallibile magia musicale, mi ero allontanato troppo da quella nebulosa identità che mi ero costruito.
Quale che fosse la ragione, mi ero nuovamente smarrito nel mezzo del nulla, ma stavolta ero rimasto a secco di euforia e illusione.
Nulla riesce a lenire la malinconia e cancellare lo spettro di quella serata alla fiera.
Già da tempo le difese che mi ero costruito per proteggermi e sopportare le tensioni dell’infanzia hanno perso il loro scopo originale ma ormai ne sono diventato dipendente.
Le sfrutto per isolarmi oltre il dovuto, sancire la mia alienazione, tagliarmi fuori dalla vita, controllare gli altri e tenere a bada le emozioni finchè non fa male.
Ora però non funziona più.
L’incontro con la psicoanali
Nel documentario “In his own word” Springsteen racconta così il suo incontro con la psicoanalisi.
In passato avevo l’abitudine di salire in macchina e di guidare fino al mio vecchio quartiere,
quello in cui sono cresciuto,
arrivavo lì e passavo davanti alle case in cui avevo vissuto, lo facevo sopratutto di notte, perchè spesso rimanevo sveglio.
L’ho fatto con una certa regolarità,
due tre quattro volte alla settimana – per anni – finchè un giorno mi sono chiesto “ma che cosa diavolo mi è preso?”
così sono andato da un analista e…
giuro che è vero…
sono andato lì,
mi sono seduto e ho detto “dottore per anni sono salito in macchina e sono tornato al mio vecchio quartiere, in piena notte, per guardare le case e i posti dove sono vissuto, l’ho fatto per anni, ora vorrei sapere cosa significa” e lui mi ha detto: “dimmelo tu perchè lo hai fatto” “veramente la pago proprio per questo”
e lui mi ha risposto: “forse ti senti in colpa per qualcosa e stai cercando un modo per liberarti di quel peso, hai commesso un errore e quindi continui a tornare sui tuoi passi per vedere se puoi rimediare”
al che io ho detto: “è proprio così…”
e lui: “non puoi”.
Springsteen scrive in “Born to run” di essere stato in terapia per venticinque anni: ”il risultato del mio lavoro con lui ed il debito che provo nei suoi confronti sono l’anima di questo libro”
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2019/10/LA-PSICOANALISI-DI-BRUCE-SPRINGSTEEN.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2018-04-28 19:51:082020-09-13 16:03:43LA PSICOANALISI DI BRUCE SPRINGSTEEN
“Un comportamento definito “folle” può essere l’unica reazione possibile ad un ambiente in cui si comunica in maniera assurda e insostenibile” Paul Watzlawick
Herbert Paul Grice
(1913 – 1988) è stato un filosofo inglese, docente dapprima a Oxford e successivamente a Berkeley.
Egli ha dato un enorme contributo alla teoria della comunicazione.
Le logiche della conversazione
Grice ha fissato regole fondamentali alla conversazione fra individui soggetti al principio di cooperazione che dice:
«Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato».
Il principio di cooperazione è dunque una convenzione sociale e culturale la quale ci aiuta a interpretare il significato contestuale di un enunciato, ovvero la sua implicatura conversazionale.
Le regole di cooperazione sono quattro
Le regole di cooperazione sono quattro e vanno sotto il nome di massime conversazionali e osservano questi principi:
– quantità (“Dai un contributo appropriato sotto il profilo della quantità di informazioni”)
– qualità (“Non dire cose che credi false o che non hai ragione di credere vere”)
– relazione (“Dai un contributo pertinente ad ogni stadio della comunicazione”)
– modo (“Esprimiti in modo chiaro, breve, ordinato”).
Implicature conversazionali
E’ comunque ovvio che queste massime possono essere violate o sfruttate secondo gli scopi comunicativi.
Il comportamento derivante dalla loro osservanza, violazione o sfruttamento – genera delle implicature conversazionali le quali sono:
«informazioni supplementari derivanti dal confronto di ciò che il parlante ha detto con la sua supposta aderenza al principio di cooperazione e alle massime».
Ad esempio, se al mio interlocutore dico: “Quella persona è sgradevole vero?”, e questi replica: “Che bella giornata oggi, non è vero?”, dal fatto che egli non sta rispettando la massima della relazione (la sua risposta manca di pertinenza), e dall’assunto che stia comunque rispettando il principio di cooperazione (non ho motivo per ritenere l’opposto) – inferisco che la violazione della massima è deliberata e non accidentale: la sua conversazione quindi implica che egli non voglia pronunciarsi sulla persona in questione.
A partire dal 1975, molti sono stati i linguisti e i filosofi che hanno raccolto l’insegnamento di Grice, sviluppandolo in varie direzioni.
Questa teoria della comunicazione ha come pregi la semplicità e l’aderenza al percepito, al quotidiano, aspetti per le quali si rende molto intuitiva e interessante da esplorare.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2018/02/Le-logiche-della-comunicazione-di-paul-grice.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2018-03-18 09:05:432021-01-10 17:42:44LE LOGICHE DELLA CONVERSAZIONE DI PAUL GRICE
IL TEMPO DEL CAMBIAMENTO – Quanto dura una psicoterapia
“Ricostruendo, attraverso la psicoterapia, la sua storia al di fuori delle lusinghe narcisistiche dell’autobiografia, il soggetto riordina le contingenze passate attribuendo loro il senso di necessità future.
Connettendo passato e futuro la storia si fa progetto senza scadere nel delirio onnipotente.
Il tempo del soggetto è dunque il futuro anteriore, quel “sarà stato” che scandisce la terapia.
Solo attraverso l’esaustione di tutte le impossibilità il soggetto accede a quei pochi gradi di libertà con i quali può esercitare il suo residuo potere”. Silvia Vegetti Finzi
Quanto dura una psicoterapia
La durata di una psicoterapia è molto variabile e dipende da numerosi fattori: da quanto tempo la persona ha sopportato da sola il problema, la complessità del problema, la condizione emotiva del paziente al momento della richiesta e le sue possibilità economiche.
Spesso si pensa che i problemi di tipo psicologico necessitino di un intervento lungo e costoso.
Con un percorso di psicoterapia integrata a volte il problema si sblocca in poche sedute permettendo alla persona di recuperare la fiducia nelle proprie capacità personali.
Inoltre nessun paziente viene sequestrato dal suo terapeuta; bensì decide sempre in maniera autonoma e certo, se vuole, insieme al terapeuta, di poter scegliere il momento più adatto in cui sospendere o interrompere il suo percorso.
Chiaramente più sono complessi gli obiettivi e le situazioni che la persona si prefigge di raggiungere, di superare o comprendere e più probabilmente sarà necessario impegnare del tempo per raggiungerli.
A volte però è necessario essere supportati soltanto per un breve tratto del proprio percorso di vita.
Nel mio caso comunque la scelta di rinnovare ogni volta l’incontro terapeutico è sempre del paziente che scieglie, in totale libertà, di valutare e decidere se proseguire o interrompere il percorso psicologico o psicoterapeutico proposto anche senza dare formale comunicazione allo psicoterapeuta.
Chiedere, anche con un solo colloquio, il parere di uno psicoterapeuta, significa avere la totale riservatezza garantita dal segreto professionale e l’opinione di un professionista per tutti quei problemi che non si riescono a risolvere da soli.
Ogni seduta deve essere considerata come incontro unico e rinnovabile solo fissando un nuovo appuntamento.
E’ opportuno comunque riflettere sul fatto che un percorso terapeutico è un percorso di conoscenza di sè che è utile affrontare con serietà.
La psicoterapia
La psicoterapia è una terapia della parola; è l’arte di saper dare il giusto nome alle istanze della psiche per donare un senso nuovo, più profondo e più ampio alla propria biografia e alla propria storia.
E’ essenzialmente un percorso di conoscenza di sè stessi che porta anche a imparare a rispettare i propri tempi interni.
Jung diceva che: “tutto ciò che ha valore esige tempo e richiede pazienza “affinchè le parole dette e ascoltate diventino memoria”.
“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2018/08/cambiamento-1.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2018-02-18 10:10:342022-10-18 13:30:25IL TEMPO DEL CAMBIAMENTO – Quanto dura una psicoterapia
(1857 – 1913) è stato un linguista e semiologo svizzero. È considerato uno dei fondatori della linguistica moderna, in particolare di quella branca conosciuta con il nome di strutturalismo.
Linguistica
La linguistica è lo studio delle lingue, nella loro storia, nelle loro strutture e nei loro rapporti con la storia della cultura.
La linguistica di Saussure
Il segno linguistico è un’entità a due facce; è espressione linguistica e contenuto concettuale. Esso è arbitrario e convenzionale. La linguistica teorica non deve occuparsi del rapporto della lingua con oggetti extralinguistici ma della sintassi, dei rapporti tra i segni linguistici, e della morfologia, dei rapporti associativi tra gli elementi del lessico.
La semantica riguarda l’organizzazione peculiare del lessico di una lingua. Qui il concetto di struttura o sistema ha un grande rilievo. Se è vero infatti che la lingua è un sistema, ogni espressione (significante) e ogni contenuto (significato) ha un valore all’interno del sistema della lingua.
Ogni comunità linguistica sviluppa in modo diverso la terminologia di un campo concettuale.
Dopo anni si sono sviluppati vari modi di concepire lo studio dei significati delle voci lessicali: come studio dei vari modi in cui le lingue strutturano il mondo; come studio dei modi in cui lo stesso campo concettuale è strutturato in varie voci. La prima ipotesi rispecchia il punto di vista strutturalista; con la seconda si ammette che esistano componenti concettuali comuni alle specie umana.
Uno dei modi più diffusi di analisi della struttura del lessico è stata l’analisi componenziale, cioè la scomposizione dei significati delle parole in elementi minimi di significato chiamati tratti semantici o primitivi semantici.
καιρός significava nell’antica Grecia “momento giusto o opportuno”.
Gli antichi greci avevano due parole per il tempo, χρονος (Kronos) e καιρος (Kairòs).
La prima si riferisce al tempo logico e sequenziale, la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale “qualcosa” di speciale accade.
Mentre Kronos è quantitativo, Kairòs ha una natura qualitativa.
Come divinità Kairòs era semi-sconosciuto, la sola testimonianza di un culto di Kairos si riferisce ad un altare in Olimpia. In un epigramma dell’Antologia Palatina si dice che Menandro chiamò nume Kairos mentre Kronos era considerato la divinità del tempo per eccellenza.
E così, nella nostra società, abbiamo aderito solo al primo e abbiamo completamente dimenticato il secondo.
L’ansia che è tipica del nostro tempo altro non è, in definitiva, che una ribellione.
La formula più comune e più diffusa del corpo per esprimere una difficoltà di adattamento a ritmi, riti e conformismi imposti dall’esterno.
E’ una mancanza di integrazione del tempo esterno con il proprio, personale e unico tempo interno.
Mancanza che non lascia spazio al pensiero che viene considerato, al contrario, una perdita di tempo.
Così, banalmente concentrati sulla quantità del fare e omologati nell’appiattimento dell’avere, abbiamo perso la personale specialità e quindi la qualità dell’essere.
E’ forse dunque nella scelta tra Kronos e Kairòs che possono risalire le radici dell’ansia del mondo moderno.
A volte, nel corso della vita, possono esserci periodi in cui sembra non sia più possibile pensare a orizzonti nuovi, contesti ambientali, relazionali o famigliari diversi da quelli che si stanno vivendo in quel momento.
Ma la vita è continuo cambiamento e spesso in queste situazioni è necessario rivolgersi a un professionista, a uno psicoterapeuta, che sappia far recuperare quel senso, quel respiro più ampio in un orizzonte sconosciuto e fino a quel momento nemmeno immaginato.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2015/12/ORIZZONTI-1.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2017-08-18 08:01:272019-11-08 14:34:06CI SONO PIU’ ORIZZONTI DI QUELLI CHE VEDI
La parola d’origine tedesca Gestalttradotta in passato in modo inadeguato con il termine “forma”, corrisponde invece al significato di “struttura unitaria”, “configurazione complessiva”, termini questi più adeguati in quanto implicano anche un aspetto di organizzazione della forma percepita.
La terapia della Gestalt si inserisce tra le terapie umanistiche e nasce a New York nel 1950 circa dalle intuizioni di Friedrich Perls, psicoanalista tedesco, emigrato negli anni quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti.
La vita di Perls è stata una sintesi continuamente rinnovata e rivitalizzata da un insieme vastissimo di esperienze umane sempre nuove e sempre diverse.
La stessa cosa possiamo dire della sua terapia in quanto sarebbe molto difficile precisare quanto questo suo approccio terapeutico deve a questa o a quella filosofia a questa o a quella scuola.
Inoltre le tecniche che sono nel tempo diventate celebri e utilizzate da altre teorie, oltre che in terapia della Gestalt, come la tecnica della sedia vuota, hanno portato la terapia della Gestalt ad essere identificata a volte con approssimazione con le sue tecniche e deprivata del suo imprescindibile sistema filosofico di riferimento.
L’apparente purezza della sua pratica clinica basata sul quì e ora e sulla immediatezza, in alcuni casi sorprendente degli esiti, sembrano permettere di eluderne gli assunti teorici che si possono invece ritrovare come base per la terapia della Gestalt, nella Filosofia Esistenziale, nella Fenomenologia e nella Semantica.
Nei suoi scritti sulla terapia della Gestalt tuttavia Perls che privilegiava uno stile e personale e creativo e che aveva una visione fondamentalmente eclettica e pluralista della terapia, pur citando le persone che hanno avuto influenza sul suo pensiero, non si è mai preoccupato di precisare che cosa esattamente aveva preso dall’uno o dall’altro.
E’ più facile quindi inquadrare la terapia della Gestalt a posteriori, inquadrandola storicamente e cominciando con il considerarla una parte importante della Psicologia Umanistica che si rifà alle concezioni di Maslow, Carl Rogers, Rollo May, ma che in realtà è diventata il polo di aggregazione di idee e di correnti che hanno, rispetto alla Psicoanalisi classica, una presa di distanza che comunque non è mai contrapposizione frontale ma piuttosto esigenza di integrazione, superamento in una concezione più vasta.
Storicamente negli anni ’50 – ’60 l’orientamento è di tipo psicodinamico: il disturbo psichico è considerato in termini biomedici anche per le innovazioni farmacologiche del momento. Contemporaneamente è riconosciuta l’inadeguatezza dei manicomi.
In questo periodo nascono nuovi modelli di riferimento; sociogenetici, comportamentali, umanistici, esistenziali e nuove psicoterapie: brevi, familiari, di gruppo, con tecniche differenti legate ai differenti disturbi.
In generale vi è una maggiore attenzione alla storia familiare, evolutiva e agli schemi adattivi messi in atto e che sono considerati fondamentali anche nella terapia della Gestalt. Sullivan nel 1954 propone una teoria basata sulla nozione di campo relazionale secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come personificazioni interiori anche in situazioni di isolamento. In quest’ottica la terapia è demedicalizata, il rapporto medico-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale il terapeuta sviluppa un maggiore atteggiamento empatico e riconosce l’importanza delle determinanti ambientali e sociali.
L’elemento innovativo introdotto da Perls nella terapia della Gestalt fu di estrapolare i principi delle leggi di percezione applicandoli ad una dimensione esistenziale ed evolutiva dell’individuo e quindi alla possibilità di utilizzarli in psicoterapia.
Alcuni ricercatori della psicologia della percezione infatti come Koler e Wertheimer sostennero che c’è prima di tutto una formazione complessiva – che essi chiamano Gestalt (formazione della figura) – e che tutti gli altri pezzi isolati sono formazioni secondarie e formulano la teoria della Gestalt in questo modo:
“ci sono degli insiemi il cui comportamento non è determinato da quello dei loro singoli elementi ma dove i processi delle parti sono determinati dalla intrinseca natura del loro insieme. Questo è il significato della celebre frase il tutto è più della somma delle parti. Lo scopo della teoria della Gestalt è di determinare la natura di questi insiemi.”
La psicologia della Gestalt (vedi: “La psicologia della percezione“) identificava un processo percettivo unitario grazie al quale i singoli stimoli sarebbero integrati nel soggetto in una forma dotata di continuità.
Ciò che prima era stato considerato un processo passivo, il percepire, veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo e cioè come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali.Scrive E. Pessa: “i gestaltisti concepiscono il processo di soluzione di un problema alla stregua di un processo percettivo governato, per l’appunto, da leggi gestaltiche, leggi che fanno sì che si tenda a percepire una buona forma. Anche la situazione problematica, individuata da elementi e rapporti tra questi elementi, è una forma, che però è percepita come cattiva, mancante, incompleta: è proprio questo che fa sì che la situazione costituisca un problema in quanto tale. Le leggi della buona forma impongono, però, una ristrutturazione, nel senso del ristabilimento di una struttura completa, chiusa, ottimale, che costituisce di per sé la soluzione stessa del problema. L’atto di ristrutturazione costituisce il celebre insight, già introdotto da Kohler. Si tratta di una concezione dell’apprendimento molto qualitativa e difficile da verificare sperimentalmente. Tuttavia ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il ruolo dei fattori di tipo globale nei processi di apprendimento. In altri termini, essa asserisce che, accanto alle singole associazioni tra stimoli e risposte e sovraordinato rispetto a queste, esiste un campo, esattamente analogo ai campi di forze di cui parla la fisica, che determina globalmente la dinamica del processo di apprendimento e le storie delle varie connessioni stimolo-risposta. L’evoluzione di questo campo è governata da leggi che tendono al mantenimento di un opportuno equilibrio globale e, nel caso in cui esso sia turbato, fanno insorgere delle forze che provvedono al suo ristabilimento”
L’indagine psicologica è quindi essenzialmente diretta a rintracciare le leggi di questa strutturazione e che sono poi le leggi che regolano il nostro contatto con il mondo. Un altro aspetto fondamentale della psicologia della Gestalt, poi ripreso dalla terapia della Gestalt, è quello dell’organizzazione del campo percettivo in figura e sfondo, che fu introdotta da Edgar Rubin e che mise in risalto come la figura emergente è generalmente contraddistinta da contorni definiti che rappresentano il focus dell’attenzione ed è caricata di una maggiore energia di relazione con l’osservatore. Lo sfondo, al contrario, rappresenta il resto del campo visivo ed è caratterizzato da attributi inversi a quelli menzionati per la figura emergente. E’ interessante notare come allo stesso Rubin non sfugga l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato. Di qui la tendenza,non casuale, a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione.
K. Lewin attuò inoltre un importante esperimento di memoria che sarà poi ripreso come fondamento per l’impianto teorico della terapia della Gestalt e che darà origine ad alcune tecniche per risolvere quelli che sono definiti “unfinished business” e cioè i “compiti non conclusi”.
Scrive Perls: “in un esperimento Lewin diede ad un certo numero di persone dei problemi da risolvere. Non era stato loro detto che era un test di memoria, ma avevano l’impressione che fosse eseguito un test di intelligenza. Il giorno dopo fu loro chiesto di scrivere i problemi che ricordavano ed erano proprio i problemi non risolti ad essere ricordati di più di quelli che erano stati risolti”.
E’ come se i compiti non conclusi e i problemi non risolti creino una sorta di interferenza e di frustrazione e fino a quando il compito o il blocco non è stato superato, concluso o risolto la mente non si libera del pensiero e i comportamenti si ripetono nel tentativo di superare il blocco o di risolverlo, a volte la persona non si rende conto in modo cosciente di questo blocco ed è per questo che a volte è utile l’incontro con un terapeuta.
La parola “soluzione”, nel linguaggio della terapia della Gestalt, indica la scomparsa e la dissolvenza di una situazione confusa.
Quindi una situazione non conclusa polarizza una carica di energia destinata a completarla rendendo la stessa energia non più disponibile per altri tipi di esperienza. Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della situazione stessa anche in luoghi e tempi successivi interferendo quindi con la possibilità dell’individuo di entrare efficacemente in contatto con i contesti cognitivi, emotivi e sociali in cui di volta in volta verrà a trovarsi.
Nella terapia della Gestalt di Perls questo concetto si dilata per definire una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. La relazione è determinata da un bisogno del soggetto e mira alla soddisfazione di questo bisogno. Una volta soddisfatto il bisogno la relazione cessa e si dice che la Gestalt è terminata. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o semplicemente un qualsiasi bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento.
Perls, appropriandosi in termini operativi dei concetti esposti sopra insiste soprattutto sul fenomeno della Gestalt non terminata come spiegazione del disagio psichico e sul concetto di integrazione come vera e radicale modalità terapeutica.
Scrive P. Baumgardner: “la terapia della Gestalt è un modo di occuparsi di un altro essere umano per dagli la possibilità di essere sè stesso, saldamente ancorato nel potere che lo costituisce, la terapia della Gestalt è una terapia esistenziale e si occupa quindi dei problemi creati dalla nostra paura di assumerci le responsabilità di ciò che siamo e di ciò che facciamo. E’ stato infatti sviluppato un procedimento terapeutico che, nella teoria della terapia della Gestalt e nella sua pratica, evita l’uso dei concetti. Egli distingue il procedimento terapeutico da quello del parlare intorno a qualcosa e delle problematiche morali lasciandoci lavorare con i dati, con i comportamenti osservabili che costituiscono il fenomeno invece che con ipotesi razionali. Queste differenziazioni sono di primaria importanza nella terapia della Gestalt, che si occupa quindi e si serve di ciò di cui abbiamo esperienza piuttosto che di ciò che è frutto del nostro pensiero. Il terapeuta della Gestalt deve perciò creare una situazione particolare: deve diventare il catalizzatore che facilita la presa di coscienza da parte del paziente riguardo a ciò che c’è nel presente, frustrandone i vari tentativi di fuga. Questa necessaria frustrazione, se non sapientemente dosata, può risultare, per alcuni tipi psicologici, particolarmente fastidiosa e può esitare in drop-out terapeutici.
Pears introduce, come abbiamo visto, come base del suo lavoro teorico la parola Gestalt e ne considera due tipi: la Gestalt completa o intera e la Gestalt in formazione. Parlando così della Gestalt come dell’unità finale di esperienza, esperienza riguardante prevalentemente la consapevolezza. A questo proposito le nozioni basilari che utilizzeremo sono quelle di bisogno e di situazione incompiuta e delle interrelazioni tra le due. Se le esigenze dell’organismo sono soddisfatte, attraverso il dare e ricevere dall’ambiente, la Gestalt è completa e la situazione compiuta. La consapevolezza del bisogno diminuisce, scompare ed emergono altri bisogni. L’organismo è pronto ad affrontare un’altra situazione incompiuta con le energie connesse alle nuove esigenze emergenti.
Lo scopo della terapia della Gestalt è quello di recuperare le parti perdute della personalità. Le nostre esperienze e le nostre funzioni rifiutate possono essere recuperate. Questo procedimento di riprendere, reintegrare e sperimentare di nuovo è il campo della psicoterapia. Il terapeuta viene coinvolto, insieme al paziente, nel processo di riappropriazione di tali sensazioni e comportamenti abbandonati fino a che il paziente comincia, continuando poi per proprio conto, ad affermare sè stesso e ad agire nei termini della persona che vuole essere realmente.
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https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2017/07/gestalt-bordo.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2017-07-18 08:08:272020-09-30 13:41:55TERAPIA DELLA GESTALT – La somma delle parti
“Tutto, in natura, ha una essenza lirica, un destino tragico, una esistenza comica”
G. Santayana
Vite di uomini non illustri è un libro di Giuseppe Pontiggia.
GIUSEPPE PONTIGGIA
detto Peppo (Como, 25 settembre 1934 – Milano, 27 giugno 2003) è stato uno scrittore, aforista, critico letterario e docente italiano.
VITE DI UOMINI NON ILLUSTRI
Vite immaginarie di personaggi immaginari, nell’Italia compresa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Duemila:
donne e uomini dal destino oscuro, di cui vengono rievocate, con precisione “storica“, le esperienze che hanno reso memorabile ai loro occhi l’esistenza:
Gli eventi veramente significativi e decisivi non corrispondono quasi mai ai dati esterni, ma appartengono a una trama segreta, a una mitologia familiare e personale, a una rete sotterranea di sentimenti, di ricordi e di desideri, a una vita parallela che spesso è clandestina e ignorata.
Questo libro racconta queste storie con la scansione cronologica delle biografie illustri, ma applicata a personaggi anonimi e a una cronaca spesso interiore; e riprende, in forme discrete e allusive, il linguaggio con cui le hanno vissute i protagonisti e i linguaggi d’epoca con le loro diverse inflessioni (da quella dannunziana a quella burocratica, da quella giornalistica a quella militare).
Ottiene così un contrappunto di stili che avvicina l’umanità delle figure da diverse angolazioni: e queste variaziani all’interno ne costituiscono uno degli aspetti più inventivi e nuovi nel quadro della narrativa contemporanea.
Raccontando l’esistenza di personaggi che appartengono alla cosidetta gente comune, l’autore ne scopre ogni volta l’eccezionalità.
Non c’è vita d’uomo che non sia ricca di phatos e di violenza, di svolte drammatiche e di situazioni comiche, di momenti sordidi e grandi, di private perversioni, di cadute e di nobili e imprevisti riscatti.
Leggere alcuni racconti di questo libro è come ritrovare, dentro una vita, la vita di tutti e dentro la vita di tutti la vita di ognuno.
de Capitani Filippo
“Nasce de Capitani il 3 ottobre 1932 nella clinica dell’Assunta di Bologna.
Scoprirà in prima elementare, nella scuola salesiana di Via Carracci che cosa significa essere nato con la de minuscola.
Significa – gli spiega sua madre con pacatezza indulgente, come se spiegasse la differenza tra l’acqua del mare e quella del lago – non essere nato come gli altri.
Sì, ma gli altri come nascono?
Sua madre si ritrae: “Tu pensa solo a quello che sei tu, hai capito?”
Tutta la vita cercherà di colmare una differenza che non sa quale sia“.
Il presente post ha il solo scopo di divulgare il libro senza scopo di lucro.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2017/05/UOMINI-NON-ILLUSTRI.png4661030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2017-05-18 07:40:252020-10-09 08:40:30VITE DI UOMINI NON ILLUSTRI
“Tempo fa in una fabbrica gli operai si lamentavano con il proprietario per il freddo che sentivano nel locale mensa, un locale che aveva le pareti imbiancate con un tono di blu, e chiedevano di aumentare il riscaldamento.
Il proprietario, non essendo di questa idea, fece invece dipingere le pareti con un tono di arancio: il risultato fu che non solo gli operai non avvertivano più il freddo, ma addirittura venne abbassato il riscaldamento”.
La psicologia del colore
parte dal presupposto che sebbene il colore abbia sempre circondato la specie umana e l’abbia influenzata fin da tempo immemorabile, è solo di recente che si è diventati abili a produrre e ad usare il colore come si fa oggi.
Prima del XX secolo, erano conosciuti solo pochi tipi di coloranti e di pigmenti, ed erano perlopiù di origine organica. Erano anche molto costosi, cosicchè i tessuti colorati, come i tendaggi, erano il privilegio delle classi ricche. Centinaia di migliaia di molluschi diedero la loro vita perchè un imperatore romano potesse indossare la sua tunica di porpora di Tiro, mentre i suoi sudditi dovevano accontentarsi di cotone o lino maltessuto, pelli o lane monocromatiche.
Solamente negli ultimi cento anni, o poco più, tale quadro è cambiato radicalmente, in primo luogo per la sintesi dei coloranti di anilina, poi per i derivati del catrame di carbon fossile, infine per gli ossidi dei metalli; oggi soltanto poche delle cose che si fabbricano sono lasciate nel loro colore originale, senza essere tinte o colorate in toto o in parte.
Quando guardiamo un quadro o una foto a colori, il significato psicologico del colore è ciò che ci colpisce meno perchè contemporaneamente molti altri fattori vi sono coinvolti – contenuto, equilibrio di foggia o forma, equilibrio dei colori, l’educazione o la competenza e l’apprezzamento estetico di chi guarda. E’ possibile, qualche volta, dedurre le caratteristiche di personalità di un pittore quando pone grande enfasi su uno o due colori, per esempio l’ossessione di Gauguin per il giallo nei suoi ultimi quadri; ma, in generale, quando si usano molti colori per creare un tutto, è il giudizio estetico che valuta il tutto e che determina se un’opera ci piace o no, piuttosto che la nostra reazione psicologica a particolari colori.
I singoli colori
In caso di singoli colori, è possibile essere molto precisi, specialmente quando i colori sono stati accuratamente selezionati in base alla loro diretta associazione con bisogni psico-fisiologici come sostiene Lüscher che ha creato un test cromatico particolare. In questo caso, per Lüscher, le preferenze per un colore o il rifiuto di un altro significa qualcosa di definito, e riflette la situazione in atto dello stato psichico o dell’equilibrio personale, o di tutti e due.
E’ comunemente noto come il colori abbiano una influenza sul’organismo; sono stati ad esempio condotti esperimenti nei quali si richiedeva ad alcune persone di fissare il colore rosso vivo per intervalli di tempo variabili; essi hanno messo in evidenza che questo colore ha un effetto decisamente stimolante sul sistema nervoso; aumenta la tensione arteriosa e la frequenza respiratoria e cardiaca.
Il rosso è, dunque, come è noto, un eccitante del sistema nervoso, mentre esperimenti analoghi con il colore blu hanno evidenziato un effetto contrario, il colore blu è quindi considerato calmante nei suoi effetti.
Nel test completo di Lüscher, ci sono sette differenti tavole di colori, contenenti in tutto 73 tipici colori consistenti in 25 sfumature o gradazioni, e che richiedono di operare 43 differenti selezioni. Il protocollo che ne risulta offre, secondo Lüscher, una ricchezza di informazioni concernenti la struttura psicologica, conscia e inconscia, di un individuo.
La vita dell’uomo è sempre stata regolata dal ritmo del giorno e della notte, dal buio e dalla luce. In effetti, la luce ci riscalda, mentre il buio tende a rallentare il nostro tono e il flusso circolatorio.
I colori caldi sono quelli della luce: rosso, giallo, arancione; i colori freddi vanno dal viola al verde, al blu. La luce agisce sulla respirazione, è una spinta al piacere, all’attività; il buio e la penombra inducono uno stato di difesa, di calma o di allarme.
Ma per tornare ora alla storia dell’arte possiamo dire che W. Kandinsky definisce il rosso: “vivo, acceso, inquieto”; il suo significato simbolico si connette fondamentalmente con il tema dell’energia vitale. Al polo opposto troviamo il blu che J.W.Goethe definisce “un nulla eccitante”, una contraddizione composta di eccitazione e di pace. Il giallo, sempre per Goethe, è “il colore più prossimo alla luce. L’occhio ne viene allietato, l’animo si rasserena: un immediato calore ci prende”.
Il verde scrive Kandinsky
“non si muove in alcuna direzione e non ha alcuna nota di gioia, di tristezza, di passione, non desidera nulla, non aspira a nulla.
E’ un elemento immobile, soddisfatto di sè, limitato in tutte le direzioni”.
Risultando dalla composizione di blu e giallo, il verde è descritto da Goethe come un colore statico ed equilibrato, dove “occhio e animo riposano su questo composto come se si trattasse di qualcosa di semplice. Non si vuole e non si può procedere oltre”.
Come sintesi di rosso e blu, il viola allude alla integrazione degli opposti e delle ambivalenze, il marrone si connette alla terra e al carattere ancestrale femminile e materno, il grigio, che Kandinsky definisce “immobilità desolata”, risulta dalla mescolanza del bianco e del nero senza essere nè l’uno nè l’atro.
Lüscher scrive che “si distingue per le negazioni. Non è ne colorato nè chiaro, nè scuro. Il grigio è il nulla di tutto, la sua particolarità è la neutralità più completa”.
Tuttavia è il colore anche considerato più elegante.
Il nero è dato dalla assenza totale di luce, è perciò connesso all’oscurità, al mondo delle ombre. Sempre Kandinsky lo definisce “qualcosa di spento come un rogo combusto fino in fondo, qualcosa di inerte che è insensibile a tutto ciò che gli accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso”.
Il bianco è la fusione di tutti i colori dello spettro, in quanto non contiene alcuna dominanza che lo faccia propendere verso qualche colorazione, il bianco è il simbolo della purezza, quindi dell’innocenza. Kandinsky lo definisce come “un silenzio che non è statico, bensì ricco di possibilità, è un nulla giovane o, più esattamente, un nulla anteriore al principio, alla nascita.
Così risuonava forse la terra nei bianchi periodi dell’era glaciale”.
Nell’esperienza percettivo-emotiva i colori vengono spesso associati ai suoni per cui, ad esempio, i suoni alti richiamano generalmente colori chiari e i suoni bassi colori scuri;
in alcuni soggetti si verificano fenomeni di sinestesia (la sinestesia, detta anche sensazione secondaria, è un interessamento di altri sistemi sensoriali oltre a quello specifico) talchè simultaneamente all’ascolto, essi percepiscono determinati colori.
In psicologia C.G. Jung ha avanzato l’ipotesi che la preferenze individuale per determinati colori abbia corrispondenza con la funzione che ne caratterizza il tipo psicologico, perchè, a suo parere, l’azzurro corrisponde al pensiero, il rosso al sentimento, il giallo all’intuizione e il verde alla sensazione.
E infine bisogna ridordare la poesia di Rimbaud
“Inventai il colore delle vocali!
A nera,
E bianca,
I rossa,
O blu,
U verde.
Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusungai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi.
Fu all’inizio uno studio.
Scrivevo silenzi,
notti,
sognavo l’inesprimibile.
Fissavo vertigini”.
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– Bateson Gregory – Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente – Adelphi Editore
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https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2017/02/colori-2.jpg10801920Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2017-02-18 08:08:132021-05-16 15:51:14PSICOLOGIA DEL COLORE – L’influenza del colore nella psicologia e nell’arte
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