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NELL’INCONSCIO DI JUNG

“Rendi cosciente l’inconscio
altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita
e tu lo chiamerai destino”
C. G. Jung

NELL’INCONSCIO DI JUNG

Carl Gustav Jung

Carl Gustav Jung, psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista e antropologo Svizzero, nasce nel 1875 in un piccolo paese della Turgovia.

Cresciuto in un contesto fortemente religioso (il padre era un pastore protestante), si trovò sin da giovane ad affrontare il conflitto tra tradizione etico-religiosa e spinta individuale all’indipendenza e al giudizio.

Questo conflitto adolescenziale e giovanile ha lasciato tracce nello sviluppo maturo del suo pensiero, sempre conteso tra l’affermazione irriducibile dell’esperienza personale, non inquadrabile in nessuna “scienza” e la formulazione di una teoria psicologica e antropologica con pretese universali e “oggettive”.

Fu in ogni caso l’ambiente culturale della sua infanzia e adolescenza a renderlo per molto tempo sensibile ai valori della tradizione storica e a motivarlo nella ricerca di costanti universali (come l’inconscio collettivo e gli Archetipi) sottese all’esperienza individuale.

La sua vita non fu scandita da grandi avvenimenti esteriori, ma contraddistinta da una eccezionale intensità interiore e una profonda ricerca, anche spirituale, non convenzionale.

Tuttavia Jung non scrisse mai un’esposizione riassuntiva ed esaustiva del suo pensiero e lasciò che altri lo facessero per lui.

Nucleo centrale del pensiero di Jung

Il nucleo centrale del pensiero di Jung risiede in una immagine dell’essere umano come natura fondamentalmente sana e come complesso di forze in espansione, contraddittorie e tensionali e quindi di difficile armonizzazione, e tuttavia, è un essere umano, costituzionalmente portatore di una sua capacità di compensazione, individuazione e di riequilibrio implicita nella sua realtà inconscia.

I problemi e i disagi psicologici

I problemi e i disagi psicologici che una persona può incontrare nel corso della sua vita per Jung non sono causati tanto dagli avvenimenti della prima infanzia, quanto dal conflitto attuale, cioè dall’incapacità dell’individuo di adattarsi alle richieste del suo ambiente o di trasformarlo in base alle sue esigenze evolutive.

Quando questo conflitto inconscio appare alla persona insuperabile il comportamento regredisce a forme più arcaiche di funzionamento.

In questo movimento a ritroso la persona incontra i nodi irrisolti della sua esperienza passata e ne rimane bloccata.

Ma non emerge nessun nucleo patogeno fino a quando questo movimento regressivo non viene a sollecitare ricordi latenti e comportamenti che ripropongono uno schema di modalità infantili.

Modalità più fantastiche che razionali.

La ricerca delle cause del disagio allora non si rivolge esclusivamente al passato, bensì al presente e al futuro del soggetto e al suo progetto di vita che sarà determinato da questi schemi inconsci dove passato presente e futuro sono la stessa cosa.

Secondo Jung occorre lasciarsi invadere dall’inconscio non per perdersi nella sua infinitezza ma per allargare i confini della nostra psiche in un divenire continuo.

Divenire che realizza la coesistenza dei contrari che ci dividono: razionalita e irrazionalità, introversione ed estroversione.

In ogni caso non è l’eliminazione dell’oscuro, dell’irrazionale il fine di una psicoterapia quanto la sua armonica integrazione.

Per Jung nel sintomo sono già insite le indicazioni terapeutiche in quanto, in un certo senso, già il sintomo è un tentativo di adattamento.

Si tratta, allora, nella cura, di assecondare le tendenze vitali del paziente, seguendolo per i sentieri, talvolta assai tortuosi, della sua autorealizzazione.

In questo compito lo psicoterapeuta non è solo un testimone distaccato bensì è partecipe, con il suo stesso inconscio, nel processo terapeutico.

CONTATTACI ADESSO:  Tel. 347 7966388 – Email: info@donatosaulle.it

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Tratto da:
S.V. Finzi, Storia della psicoanalisi – Mondadori
U. Galimberti, Psicologia – Garzanti
Tags: Inconscio, Jung

ICHAZO   BIRDY

LE PASSIONI DOMINANTI – La teoria psicologica di Oscar Ichazo

LE PASSIONI DOMINANTI

La teoria psicologica di Oscar Ichazo

“Al centro di ogni carattere, in reciproca relazione l’uno con l’altro, sono presenti una forma di motivazione da carenza e un errore cognitivo”
O. Ichazo 

Oscar Ichazo (Bolivia, 1931 – 2020) insegnò in Cile nell’Istituto di Psicologia Applicata di Santiago e ad Arica (al confine tra Cile e Perù). Dichiarò di essere entrato in contatto con la sapienza Sufi in Afghanistan.

Le sue teorie sono molto complesse, hanno radici profonde e una dimensione che non verrà trattata in questo post che deve essere considerato solo come il tentativo di una sistemazione divulgativa estremamente ridotta di una visione.

Visione che spero possa essere considerata interessante, pur nella semplificata esposizione.

La teoria di Ichazo si basa sull’individuazione di alcune modalità in cui l’ego di una persona diventa fisso nella psiche in una fase iniziale della vita.

Per ciascuna persona, una di queste fissazioni dell’ego diventa il nucleo di un’immagine di sé intorno alla quale si sviluppa la propria personalità psicologica e il proprio carattere.

Ogni fissazione è anche supportata a livello emozionale da una particolare “passione “.

Gli insegnamenti di Ichazo sono stati progettati per aiutare le persone a trascendere, a superare, la loro identificazione con i propri modelli automatici e inconsci di pensiero e di comportamento e con le sofferenze causate da essi.

Ichazo ha indicato i tre istinti umani fondamentali per la sopravvivenza: “conservazione”; “relazione” e “adattamento”.

Dunque secondo Ichazo, la fissazione di una persona deriva dall’esperienza soggettiva nell’infanzia del trauma psicologico che viene vissuto quando le aspettative non sono rispettate in ciascuno degli istinti di base.

Ogni personalità rappresenta la cristallizzazione e l’irrigidimento delle difese infantili nel processo di adattamento precoce con l’ambiente e si struttura attorno a un nucleo emozionale (“passione” dominante), un nucleo cognitivo (“fissazione” dominante) e un nucleo che riguarda la sfera degli istinti che regolano l’attività umana.

Gli esseri umani, nei loro primi anni di vita, sono auto-centranti e perciò possono essere disattesi nelle loro aspettative in uno o in più di uno dei tre atteggiamenti fondamentali.

Da tali esperienze, il pensiero automatico e i modelli di comportamento si presentano come tentativi di difesa contro la ripetizione del trauma da carenza.

Conoscendo le proprie particolarità con la pratica dell’auto-osservazione si ritiene che una persona possa ridurre o addirittura trascendere la sofferenza causata dalle fissazioni.

Lo scopo del terapeuta è quello di individuare, insieme al paziente, le tendenze principali del carattere, le visioni del mondo e le attitudini, nonché le più probabili ipotesi evolutive, permettendo di accrescere le possibilità di auto-comprensione e di trasformazione interiore del paziente superando gli automatismi e eliminando le sofferenze radicate nell’attaccamento e nella identificazione con questi meccanismi difensivi che, Ichazo insegna, in qualche modo tentano di proteggerci dalla sofferenza, ma che in realtà non fanno altro che perpetuarla.

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Fonti:
O. Ichazo, Interviews with Oscar Ichazo, Arica Institute Press, 1982
C. Naranjo, Atteggiamento e prassi della teoria gestaltica, 1991
A. H. Almaas, L’ enneagramma delle idee sacre. Aspetti molteplici della realtà, Trad. D. Ballarini, Astrolabio, 2007
Igor Vitale, Enneagramma. La storia dal sufismo in poi Gurdjieff, Ouspensky, Ichazo, marzo 2nd, 2013 | Posted by Igor Vitale in Psicologia Clinica, http://www.igorvitale.org/category/psicologia-clinica/ consultato il 10/07/2017
S. Vegetti Finzi, Storia della Psicanalisi, Autori opere teorie 1895-1990, Mondadori 1990
https://en.wikipedia.org/wiki/Oscar_Ichazo
https://en.wikipedia.org/wiki/Arica_School
Immagine di copertina tratta da: Birdy – Le ali della libertà (Birdy), Alan Parker, 1984blu psicologo milano

La mia voce ti accompagnerà   Erikson

LA MIA VOCE TI ACCOMPAGNERA’ – La Psicologia di Milton Erickson

LA MIA VOCE TI ACCOMPAGNERA’

La Psicologia di Milton Erickson

“Scegli un momento nel passato.
La mia voce ti accompagnerà.
Ritrovati  felice di qualcosa,

qualcosa avvenuto tanto tempo fa.
Qualcosa tanto tempo fa dimenticato.”  
M. Erickson

Milton Erickson

Milton Hyland Erickson (Aurum, 15 dicembre 1901 – Phoenix, 25 marzo 1980).

E’ stato uno psicologo, psicoterapeuta e psichiatra statunitense.

A Phoenix (Arizona) ha esercitato privatamente per oltre 30 anni.

I racconti di Erickson

Metafore, apologhi, aneddoti, divagazioni umoristiche a volte senza senso apparente, enigmi a chiave, quale che fosse la loro forma esteriore, i racconti didattici di Milton H. Erickson erano in realtà strumenti terapeutici raffinati e intesi a instillare nel paziente i semi di una nuova visione del mondo.

Erano quindi orientati a determinare un vero e proprio cambiamento terapeutico.

E’ stato detto che non risolveva mai un problema nel modo tradizionale  e chiunque conosca appena il suo modo di fare terapia sa bene a quale e a quanta varietà di tecniche sorprendenti e nuove ricorresse nella sua pratica e quale influsso i suoi metodi rivoluzionari abbiano avuto sugli sviluppi della psicoterapia.

Elemento inscindibile, oltre a questo, dunque nella pratica psicoterapeutica di Erickson era il suo impiego di racconti: storie singolari, a volte bizzarre, episodi realmente accaduti o anche fantasie apparentemente prive di senso, che potevano lasciare interdetto l’ascoltatore.

Ma ogni racconto di Erickson, sia nella forma espressiva che nel contenuto, avevano un senso e uno scopo precisi: erano tutti strumenti utilizzati per cercare di aprire la mente dell’interlocutore a intuizioni nuove e inaspettate che quasi sempre conducevano a un sorprendente esito terapeutico.

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Il presente post ha il solo fine di divulgare il libro e/o  il film da cui è stato tratto senza scopo di lucro.

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Tratto da:
“La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici”
Milton H. Erickson
Curatore: S. Rosen
Editore: Astrolabio Ubaldini
Collana: Psiche e coscienza
Anno edizione: 1983

NEL SEGNO DELL’ABUSO

NEL SEGNO DELL’ABUSO

“Vorrei svegliarmi in un mondo più gentile”

Le forme di abuso e di maltrattamento possono essere considerate da diversi punti di vista. In questo post vengono presi in considerazione quegli abusi costanti e striscianti, insiti in forme di comunicazioni e di relazioni tossiche, malsane e malate.

Vengono quindi prese in considerazione in modo primario le forme di abuso psicologico e solo marginalmente si parlerà di quelle forme che sfociano, in minaccia o atto, di abuso fisico o sessuale.

In questa ottica si considera fondamentale separare gli atti posti in essere con cosciente e consapevole volontà di causare un danno psicologico a un altro essere umano da quegli atti, e sono la maggior parte, che sono agiti in modo inconsapevole o inconscio ma che esitano comunque e sempre in una condizione di malessere in chi li subisce e, pur in maniera diversa, anche in chi li commette.

Fernandez  definisce l’abuso come “azione violenta che, condotta con intenzione e direzionalità, cerca di causare danno a una persona”.
In realtà non è sempre vero che l’abusante abbia sempre una consapevolezza intenzionale e come fine principale quello di procurare un danno (che comunque provoca e di cui sottovaluta le conseguenze), sembra però che a volte la spinta emotivo-affettiva si organizzi attorno a:
– sentimenti di onnipotenza;
– bisogno di sottomettere ed anche annichilire l’altro;
– bisogno di controllo assoluto sulla vita dell’altro;
– scaricare un desiderio distorto, caratterizzato cioè da una deformazione o deviazione dello stimolo rivolto a procurare un danno;
– comportamenti appresi nella sfera famigliare, subiti prima e riproposti poi.

Queste osservazioni riportano al quesito non risolto se si tratti di un atto istintivo che ha un valore in sé oppure se, al contrario, sia il risultato di un retroscena ampiamente psicopatologico (naturalmente ci sono i casi, che vanno chiariti, nei quali si può riscontrare una vera volontà di delinquere) che non è argomento di questo post.
Quando l’abuso si riferisce a un danno provocato, l’uso della parola non è corretto per cui bisognerebbe parlare di violenza che può essere agita sia sul corpo che sulla organizzazione psico-affettiva.
Quando l’abuso viene perpetrato involontariamente e con modalità velate, oscure o inconsce tutto diventa più complesso in quanto l’attore, e spesso la persona che subisce, non percepiscono la gravità delle conseguenze psicologiche che provocano questi atteggiamenti di continua e costante svalutazione.

La violenza psicologica si mette in atto provocando continuamente la vittima, con offese, denigrando, con il disprezzo e con l’umiliazione ma anche con il sarcasmo. Inculcando nella sua mente il seme dell’ossessione e dell’insicurezza, limitando la vittima della sua libertà o della sua intimità. Mentendo o mettendo l’accento sugli aspetti della realtà più svalutanti, con l’esclusione dal potere decisionale e spesso con l’isolamento.

In alcuni casi si possono rilevare modalità disfunzionali che coinvolgono interi sistemi familiari nella attuazione inconscia di comportamenti prevaricanti e non rispettosi dei confini e dei limiti di un singolo componente del nucleo familiare che, spesso, se segnala il proprio senso di disagio viene escluso o allontanato dal nucleo. Allontanarsi da un nucleo disfunzionale è a volte inevitabile ma nei casi di esclusione subita, senza aver compreso, anche a livello solo razionale, le dinamiche sottostanti, questo viene vissuto con sensi di colpa (una colpa senza nome) e non integrato in una visione di Sè e della propria biografia dotata di senso.

Dobbiamo quindi parlare di un trauma che riguarda per lo più la sfera psico-mentale e che coinvolge sia la potenzialità dell’attore che quella di chi subisce il trauma.
Una azione può risultare più traumatica se agita in pubblico, piuttosto che in privato, anche perché può essere più incisiva se suscita sensi di vergogna.
Può diventare traumatico non solo un atteggiamento attivo, ma anche una negligenza, una mancanza ed anche un semplice allontanarsi, un atteggiamento, una modalità anche non verbale.
L’azione traumatica può diventare tale se il soggetto si trova impreparato (da una azione imprevedibile) o in una condizione anche temporanea di debolezza (per es. un trauma verbale in una persona anziana, temporaneamente indifesa perché depressa o agitata per altri motivi) o incapace di sopportare l’ira, il sarcasmo o la fredda indifferenza dell’attore.
Anche un eccesso di accudimento può esitare nelle conseguenze di un abuso. Un dare continuamente senza lasciare il tempo di formulare e a volte nemmeno di pensare il bisogno. Saturare una richiesta prima che venga espressa. Soddisfare dei bisogni o prevenirli porta a soffocare la domanda e quindi il soggetto non può che allontanarsi o protestare per far comprendere, magari per vie negative la vera domanda.
In forma leggera la situazione è probabilmente più frequente di quanto si pensi ed è ampiamente sottovalutata perchè non causa evidenti problemi fisici immediati. La manifestazione più severa dell’ipercura è la  sindrome di Münchausen per procura, in questo caso si attribuisce, generalmente al bambino, sintomi e malattie di cui non soffre realmente, ma che sono piuttosto il frutto di una convinzione distorta, radicata nello stato di salute fisica e psicologica del genitore che trasferisce su di lui (per procura) il proprio stato e la propria convinzione di malattia.
Il trauma non produce generalmente danni fisici, e quindi visibili, immediati (se si eccettuano i momentanei stati d’ansia), ma successivamente si possono provocare:
– perdita dell’equilibrio psico-mentale;
– diminuzione del senso di sicurezza o condizioni di paralizzante insicurezza;
– paura di aver perso le proprie capacità mentali;
– sensazione di incapacità od insufficienza ad assolvere i propri compiti;
– convinzione di essere la causa di questo accadimento;
– diminuzione dell’autostima e perdita del senso di auto-soddisfazione;
– sentirsi senza via d’uscita,
– ridurre l’empatia e la dimensione dell’intimità.
– sentimenti di vergogna e colpevolezza
– ritiro sociale e abuso di sostanze

La violenza verbale può assumere anche aspetti di abuso se:
– svalorizza l’altro nelle sue capacità psico-fisiche, attitudini, potenzialità;
– blocca o devia gli argomenti dell’altro;
– ribatte ogni giustificazione;
– irride o minimizza i valori dell’altro;
– giudica e critica in maniera incontrovertibile, rifiutando ogni tipo di dialogo;
– confonde l’altro con argomentazioni ossessive;
– erode la fiducia e la determinazione dell’altro;
– insulta o alza smodatamente la voce;
– minaccia di passare alla compulsività fisica;
– approfitta di leggere dimenticanze, usando anche la manipolazione.

Le caratteristiche della violenza riguardano:
– produrre risposte d’angoscia: questa si definisce come risposta emotiva intensa, automatica e inconscia;
– incutere paura, che è una risposta mediata (non automatica), elaborata da processi personali consci ed inconsci e che, quindi, ha le caratteristiche che l’assimilano ai sentimenti;
– provocare uno stato di terrore nel quale è implicito un senso di impotenza totale che nei casi più gravi può far sentire di essere di fronte ad una esperienza catastrofica o ad una morte inevitabile.

A volte queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione diversa si presenta invece quando si è esposti a queste forme di legami per lungo tempo e a poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale sopratutto per l’infanzia, che è il periodo in cui i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo – quindi quello che accade a loro è, e diventa, per così dire, la legge dell’universo e la propria visione del mondo. E’ dunque chiaro che in questi casi non si tratta di un trauma isolato; siamo piuttosto di fronte a un modello ben determinato di interazione. Si può meglio capire la qualità interattiva di questo modello se si tiene presente che il doppio legame nell’adulto non può essere – per la natura della comunicazione umana – un fenomeno unidirezionale.

L’indice dell’importanza della violenza tiene poi conto del soggetto verso il quale l’azione viene agita, proprio perché, per esempio, un bambino o un anziano sono più vulnerabili di un adulto e un disabile ha meno capacità di difendersi.
Inoltre, le percezioni personali riguardo alla violenza si legano inesorabilmente alla percezione del livello di potenzialità aggressiva dell’attore sia per sé che per il ruolo che lo caratterizza e, quindi, sulle possibili ritorsioni in caso di autodifesa, di reazioni di contenimento o aggressive a loro volta.

Spesso si assiste a una notevole sottovalutazione del fatto che persone con problematiche personali ed emotive non risolte, e con scarse possibilità di risolverle da sole, producano comportamenti non empatici e non rispettosi dei limiti dell’altro e che questi possono determinare una condizione di abuso e provocare effetti intensi e duraturi negli anni che vengono a volte anche tramandati tra generazioni. L’abuso e il maltrattamento sono fenomeni  che non si risolvono con il semplice passare del tempo. Si cronicizzano. E’ necessario superare la paura anche solo di pensarle queste situazioni, evitare di negare che il problema esista o che si possa risolvere da solo.

Anche perchè a volte sono sostenute da persone che credono di possedere una presunta superiorità “morale”.

E’ necessario infine sottolineare che non tutto il dolore è patologia. Spesso il dolore, anzi l’essenza del dolore, è non conoscenza di sé, della propria biografia e delle dinamiche relazionali  e comportamentali che fanno parte della propria storia di vita.

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Dott. Donato Saulle

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Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388BLUFonte:
Romeo Lucioni, Ida Basso – Nel segno dell’abuso
http://www.slowmind.net/timologinews/abuso3.html
P. Watzlawick, J.H.Beavin, D. Jacson – Pragmatica della comunicazione umana
Umberto Galimberti: Il successo della filosofia – Feltrinelli Editore
http://www.feltrinellieditore.it/news/2003/10/23/umberto-galimberti-il-successo-della-filosofia-2200/
Immagine: Maurizio Bottarelli, Spiaggia nera a Mokau (particolare), 2007

Tags: Abuso, matrattamento, trauma, comunicazione, inconscio

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L ARMONIA PERFETTA 1

L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura

L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura

Nonostante le differenti interpretazioni che si riscontrano nelle varie culture ed epoche storiche, i colori (come abbiamo visto in un post precedente sulla psicologia dei colori) rappresentano in ogni area geografica e a ogni livello di conoscenza uno dei livelli più significativi della lettura simbolica del mondo esteriore e interiore. Per ciascuna cultura e per ciascun individuo ogni colore assume un certo significato ed esercita un certo effetto connesso a immagini, contenuti, figurazioni ed emozioni che il soggetto percepisce anche se non conosce.

In alcune tribù Balinesi si usa definire l’infinita gamma di colori in due modi: i colori chiari e i colori scuri. Scrive l’antropologo G.Bateson in Mente e Natura: “in tutte le forme di pensiero, anche se in qualcuna di più e in qualcuna di meno, c’è una fortissima tendenza a pensare e a parlare come se il mondo fosse costituito da parti separabili. Tutti i popoli del mondo, tutti i popoli esistenti e conosciuti hanno qualcosa che somiglia a una lingua e sembra che tutte le lingue si basino su una rappresentazione particellare dell’universo. Tutte le lingue hanno qualcosa di simile ai nomi e ai verbi, che isolano oggetti, enti, eventi, esperienze e astrazioni. In qualunque modo si esprima, la differenza suggerisce sempre delimitazioni e confini, produce conflitti e procura inutili soffferenze.

Se i nostri mezzi per descrivere il mondo scaturiscono da nozioni di differenza, allora la nostra immagine dell’universo non può che essere particellare.

Diffidare quindi della lingua e credere nella sostanziale unità dell’essere diventa un atto di fiducia.

Quando parliamo dell’universo non possiamo far altro che darne descrizioni suddivise. Ma queste suddivisioni in confini, in parti nominabili, possono essere fatte in tanti modi. Alcuni migliori, altri peggiori. A volte in buonafede a volte in mala-fede.

Chi delimita confini e marca diversità esprime una visione primitiva e parziale del mondo.

Come dice W. Blake in The Gost of Abel: “la natura non ha contorni”.

Dott. Donato Saulle

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blu psicologo milanoPsicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milanoTratto da:
Bateson Gregory – Mente e natura –  Psicologia – Adelphi Editore
Bateson Gregory – Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente –  Psicologia – Adelphi Editore
Galimberti Umberto – Psicologia – Garzanti
https://it.wikipedia.org-psicologia
Modelli di psicologia – Il Mulino
Immagine: Piet Mondrian | Armonia Perfetta
Immagine di copertina: Piet Mondrian | Armonia Perfetta (modificata)blu psicologo milanoTag. Psicologia, psicologia del colore, Armonia perfetta, Mente e natura, Il test dei colori, psicologia dell’arte

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RABBIA E VENDICATIVITA’ – Il desiderio di pareggiare i conti

RABBIA E VENDICATIVITA’

L’uomo che coltiva per tutta la vita la propria vendetta mantiene le sue ferite sempre aperte”. 
F. Bacone

Con il termine rabbia si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto. Con la rabbia si prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stessi.

Di natura diversa è la vendicatività, cioè uno stato emozionale complesso che apparentemente nasce come reazione al dolore e alla rabbia successivi a una perdita. Le risposte più comuni conseguenti alla sofferenza della perdita di un oggetto d’amore sono quelle della tristezza o della depressione, sentimenti questi che possono giungere a innescare anche rabbia e desiderio di vendetta. Per Charles W. “Le osservazioni cliniche suggeriscono che la tristezza può continuare a essere l’aspetto predominante della depressione solo fino a che il soggetto riesce a mantenere l’investimento libidico sul mondo oggettuale operando una deviazione dell’aggressività sul Sè. Gli stati d’animo di rabbia e vendetta, oltre che da ferite e delusioni, possono essere fatti precipitare da un conflitto narcisistico, cioè da un conflitto avente a che fare con il senso di colpa o da una esperienza di fallimento o di grave sbaglio con conseguenti sentimenti di perdita, in cui l’aggressività diretta contro il Sè viene secondariamente rivolta verso soggetti esterni.

Mentre il sentimento della rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività è totalmente e inutilmente distruttiva. Il soggetto è in stato di forte malumore, appare implacabile, spietato, crudele, insensibile, inesorabile e inflessibile. Vive in funzione della vendetta, che sembra essere diventata l’unico scopo della sua vita. In preda a forti passioni, cerca di sfruttare qualsiasi occasione per dar luogo ad azioni punitive o di ritorsione, e al primo posto nella lista dei suoi desideri c’è quello di pareggiare i conti (in realtà, di andare anche al di là di un pareggiare i conti). Il quadro clinico è il medesimo sia che il soggetto pensi e agisca sulla base della convinzione di essere impegnato in una operazione di giusta punizione, sia nel caso in cui voglia dar corso a una rappresaglia maligna.

Si osserva una tendenza a mettere in atto la vendetta anche contro tutte le possibili avversità e a prescindere dai “costi” dell’operazione e alle conseguenze che possono giungere anche all’annullamento di sè. L’individuo in preda a questo stato non permetterà che il male che gli è stato fatto (vero o presunto) resti impunito. Protesterà insistentemente di non essere inferiore a nessuno e di non voler sopportare gli abusi arrecatigli da chichesssia. La persona vendicativa può essere, a tratti, consapevole dell’irrazionalità e inadeguatezza dei suoi sentimenti e dei suoi scopi, ma tale consapevolezza viene rapidamente oscurata dalla forza travolgente dello stato d’animo che prova. Non sperimenta alcun senso di colpa. Non mostra alcuna preoccupazione circa le possibili conseguenze morali, sociali e personali delle sue azioni.

A un livello psicologico più profondo il mondo del Sè e degli oggetti viene modificato, con la conseguente produzione di una serie di alterazioni del comportamento, del pensiero, degli atteggiamenti, dei valori, delle aspettative e della tonalità dei sentimenti. Il campo psicologico e mentale si restringe, l’orizzonte si oscura, il pensiero diventa ossessivo, la realtà viene interpretata come persecutoria e con il passare del tempo la situazione diventa cronica. Senza il continuo e necessario confronto con qualcuno che sappia ascoltare e mettere confini e limiti al proprio pensiero l’unica realtà diventa la realtà vendicativa che sostituisce il reale condiviso e il soggetto si sgancia dal proprio elemento umano. Se l’oggetto della furia vendicativa non è nel raggio d’azione di colui che cova i sentimenti di vendetta, può verificarsi un aumento dello stato di tensione. Il soggetto può avere la fantasia che in quello stesso momento stiano per essere perpetuate nuove cattive azioni contro di lui. La  somiglianza tra questi due aspetti e le fasi dello sviluppo paranoide è evidente, anche se non è necessariamente detto che nel soggetto vendicativo debba insorgere una condizione paranoide. Come in altre situazioni e stati d’animo di affettività intensa, la possibilità che una modificazione delle condizioni ambientali porti a una diminuzione della tensione è minima, perchè il soggetto tende a selezionare, per poi scartarli, tutti gli stimoli esterni che contraddicono il suo stato emotivo. Lo spirito vendicativo viene continuamente alimentato da una serie di immagini e fantasie sui presunti torti subiti. Il soggetto può anche dar luogo, consciamente e inconsciamente, ad atti nocivi per il suo immediato benessere, a partire dai quali procede poi verso lo stato di vendicatività, vissuto a quel punto come giustificato”.

Per Searles “Il fine conscio della vendicatività è il castigo, la punizione, nonchè un agognato stato di pace che ovviamente non si raggiungerà mai con il compimento della vendetta. Si osserva poi che di solito l’atto vendicativo stesso è altamente sovradeterminato. Da un punto di vista inconscio, il fine del soggetto vendicativo è quello di tenere nascosto un danno ancor più disastroso sofferto dal suo Io, un danno che costituisce la base di tutte le altre offese specifiche delle quali egli si lamenta. In questo senso l’atto vendicativo è un meccanismo di difesa la cui funzione è quella di nascondere traumi narcisistici più profondi. Si potrebbe forse dire che la vendicatività, o qualsiasi altra forma di ostilità, può servire come difesa contro la presa di coscienza di emozioni rimosse cariche di angoscia e la vendicatività sembra prestarsi in particolare alla rimozione dal dolore e dalla angoscia di separazione. Essa permette all’individuo di eludere o di postporre l’esperienza di questi due affetti, e della necessaria fase si separazione che porta la persona ad essere autonoma e adulta, perchè non ha veramente “rinunciato” alla persona verso cui è diretta la sua vendicatività: vale a dire, l’essere occupato con fantasie vendicative riguardanti quella persona serve, in effetti, a tenersi psicologicamente aggrappati ad essa.

I pazienti non si liberano dalla rabbia e dalla terribile sete di vendetta unicamente elaborando l’ostilità che è dentro di loro. Le radici della rabbia e della vendicatività saranno distrutte quando la terapia sarà riuscita a elaborare il dolore e l’angoscia da separazione situati nelle sfere più profonde, solo in quel momento il paziente potrà accostare i suoi simili in modo più flessibile e armonico”.

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Tratto da:
Bollati Boringhieri – Rabbia e vendicatività
Harold F. Searles – La psicodinamica della vendicatività – Rabbia e vendicatività  – Bollati Boringhieri
Charles W. Socarides – La vendicatività: il desiderio di pareggiare i conti – Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhieri
Immagine: Michelangelo – Anima dannata (part.)
Tags: rabbia, vendicatività

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“Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un giardino. Ci incontreremo laggiù” J. Rumi

Ben oltre le idee
di giusto e sbagliato
c’è un giardino.
Ci incontreremo laggiù”. 
J. Rumi

Oggi non parliamo direttamente di psicologia o di psicoterapia ma vogliamo proporre la poesia e la cultura di Mevlana Mohammed Rumi (nato nel 1207, morto nel 1273 a Konya) anche conosciuto come Jalāl ad-Dīn Muḥammad Rūmī (persiano: جلال‌الدین محمد رومی‎ ) che è considerato il massimo poeta della letteratura persiana.

Scrive Kabir Helminski il traduttore delle sue poesie in italiano: “quando iniziai a tradurre le poesie di Rùmì non avrei mai immaginato dove questo cammino mi avrebbe condotto. Quella che all’inizio mi sembrò una città esotica e lontana, il cui profilo e il cui aspetto iniziavo appena a distinguere, il luogo della poesia, ora è diventata un luogo più familiare, le cui strade e cui vicoli, non sono più visti in prospettiva, ma mi fanno sentire a casa. Per me questo mondo è reale e presente come quello esterno in cui vivo, e anche di più, perchè è un mondo di significati e non soltanto di “cose”.

Il suo genio letterario si rivela nei suoi versi di poesia lirica del Dīwān o canzoniere, noto come Divan-i Shams-i Tabrīz, considerato il suo capolavoro, un ampio arazzo in cui sono intessute favole e scene di vita quotidiana dei suoi tempi.

Per chi ha famigliarità con la sua vita e con le sue opere Rùmì è qualcosa di più di un poeta. Il tema della sua poesia non è la vita ma qualcosa di molto di più della vita. Mentre la maggior parte dei poeti ci propone costruzioni di pensieri e sentimenti accuratamente preordinati Rùmì scrive a partire da un luogo che è al di là del pensiero e del sentimento come noi li conosciamo: “I tuoi pensieri sono la sbarra alla porta. Rimuovi il legno”.

La sua poesia non è tanto la ricerca di una verità e di una conoscenza immanente o di una scoperta da farsi nel mondo esterno, quanto l’elaborazione di un immediato “adesso”, l’improvviso canto interiore dell’esperienza che inonda questo mondo senza appartenervi. E’ la conoscenza che trabocca di parole, suoni e immagini. La sua è conoscenza del tutto e, insieme, delle sue parti.

Rùmì costruisce il modello di uno sterminato mondo interiore utilizzando come metafora ogni possibile evento e situazione del mondo esterno. Cerca di scardinare le convenzioni del pensare e del sentire, cerca di cambiare i condizionamenti e portare il ragionamento oltre gli infiniti preconcetti e pregiudizi tuttora presenti nelle nostre società.

E’ da segnalare infine che l’opera di Rùmì non è frutto di ambizione letteraria, ma è un desiderio di essere utile. Per lo più i suoi componimenti lirici sgorgavano spontaneamente ed erano trascritti da chi si trovava ad ascoltare.

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Dott. Donato Saulle

J.RUMI Psicologo Milano Donato Saulleblu psicologo milano

Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milanoFonti:
Rumi – “L’amore è uno straniero” – Astrolabio-Ubaldini
http://it.wikipedia.org

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HERBERT STACK SULLIVAN – IL CAMPO RELAZIONALE

Herbert Stack Sullivan 

Psichiatra e psicanalista statunitense (1892 – 1949) può essere considerato, insieme a K. Horney e a E. Fromm, il massimo esponente della tendenza culturalista neo-freudiana negli USA.
Ebbe una grande influenza nell’ambiente psicoanalitico specie per l’idea che egli aveva del disturbo mentale e per il suo modo di impostare il rapporto con il paziente

Il pensiero

Sullivan sosteneva che tutti i comportamenti umani sono la somma delle varie motivazioni che influiscono sulla persona in ogni momento specifico. Il senso della scelta è un riflesso nella coscienza della convergenza di vari motivi che si riconducono ai bisogni di soddisfacimento e di sicurezza.
Dunque il suo contributo sulle tecniche del colloquio clinico, in cui delineava un approccio meno nosografico e più interpersonale rispetto ai modelli classici, ha avuto molta influenza nella psichiatria statunitense degli anni tra il ’40 e ’50.

Il colloquio

Nel suo approccio, il colloquio diviene uno strumento non solo diagnostico, ma anche di analisi delle dinamiche relazionali usate dal soggetto, di cui questi non è sufficientemente consapevole.
Il superamento di tali “disattenzioni selettive” nei confronti dei propri stessi processi relazionali diviene quindi parte del processo terapeutico.
Nel 1954, come psicologo, psicologo clinico e psicoterapeuta, nel delineare lo sviluppo della psicologia individuale pose l’accento sui bisogni di sicurezza e sui vissuti di angoscia, interpretati come risposta alla frustrazione dei bisogni primari.

Il campo relazionale

Nell’analisi della personalità operò uno spostamento dai rapporti e conflitti intrapsichici alle dinamiche interpersonali, formulando una teoria basata sulla nozione di “campo relazionale”, secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come “personificazioni” interiori anche in situazioni di isolamento.

Quindi in quest’ottica il rapporto terapeuta-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato, ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale, il terapeuta, sviluppa un maggiore atteggiamento empatico riconoscendo l’importanza delle determinanti ambientali e sociali e si propone di individuare insieme al paziente, con rispetto e ascolto, gli eventi scatenanti del malessere e le motivazioni dell’isolamento per comprendere i vissuti correlati e il significato che questi eventi assumono nella narrazione di vita dello stesso.

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Dott. Donato Saulle

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Fonte:
U. Galimberti – Psicologia – Garzanti
it.wikipedia.org/wiki/Harry_Sullivan
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