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TUTTO SULL’ANSIA

TUTTO SULL’ANSIA

Cosa è “ansia”? 

Ansia:

lat. anxia femminile di anxius che significa affannoso, inquieto, e a sua volta derivato da ango, passato di anxi che significa stringere, soffocare, e a cui derivano anche angustia e angoscia.

La differenza tra ansia e angoscia è presente solo nelle lingue latine, mentre per la lingua tedesca (Angst) ed inglese (anxiety) sono indistinte. Inoltre solitamente è nell’ambito della psicoanalisi che si usa angoscia, mentre nella psicologia di ispirazione fisiologica e comportamentale è usato il termine ansia.

L’ansia si caratterizza come una condizione di tensione che si manifesta con timore, apprensione, attesa inquieta e, spesso con una serie di correlati fisiologici come tremori, sudorazione, palpitazioni, senso di affaticamento, difficoltà a respirare normalmente.

L’ansia è caratterizzata da:

una attivazione eccitatoria di tipo “tensivo” e “apprensivo” con correlati fisiologici evocanti il senso di sopraffazione, come l’accelerazione dei battiti cardiaci e palpitazioni, aumento di pressione, respirazione veloce, talvolta sino al senso di soffocamento, tensione muscolare e rigidità, o all’opposto astenia, iperproduzione gastrica, iperidrosi (sudorazione eccessiva);
vissuti di paura, timore, inquietudine, insicurezza;
produzione di pensieri invasivi, con l’esperienza del non-controllo e disintegrazione. 

La psicologia “comportamentale”

utilizza per l’ansia un punto di vista descrittivo e la definisce in termini operativi e nei correlati fisiologici, tentando di operare misurazioni o di indagare le aree cerebrali interessate e gli schemi di attivazione.

La psicoanalisi

analizza l’ansia in una prospettiva comprensiva ed esplicativa, e è usualmente definita con il termine “angoscia”. Leonardo Ancona ci ha offerto una prosposta di differenziazione tra angoscia e ansia: l’angoscia si appropria a un processo psichico sostanzialmente diverso da quello dell’ansia.

Infatti l’angoscia corrisponde alla situazione di trauma, cioè ad un afflusso di eccitazioni non controllabili perché troppo grandi nell’unità di tempo; l’ansia corrisponde ad un processo di adattamento di fronte alla minaccia di un pericolo realistico; questo processo è una funzione dell’Io che se ne serve come di un segnale, dopo averla prodotta, per evitare di venire sommerso dall’afflusso traumatico delle eccitazioni. In questo caso l’Io è soggetto attivo in quanto produce l’affetto e se ne serve per trovare adeguati dispositivi di difesa, la carica pulsionale viene strutturalizzata e riprodotta senza base economica, cioè senza attuazione di scarica”.

Nella visione freudiana l’angoscia:

Visione economica: corrisponderebbe ad una eccitazione eccessiva in assenza di un rappresentante che ne permetterebbe un destino trasformativo;

Visione strutturale: sarebbe un affetto dell’Io, ossia un segnale con caratteristiche di “vissuto”.

La funzione dell’Io freudiano starebbe nel proteggere la coscienza dagli impulsi dell’Es, minacciosi per la coscienza (magari in contrasto con altre esigenze psichiche), attraverso la rimozione.

La rimozione

sarebbe, in sostanza, un processo di scomposizione tra il rappresentante (ideativo del desiderio o impulso inconscio) e il suo affetto, originariamente legata all’esperienza di una situazione traumatica di perdita: il rappresentante viene rimosso, mente l’affetto viene spostato e trasformato in angoscia segnale: in questi termini l’angoscia sarebbe il segnale di un pericolo “interno”. Esisterebbe una rimozione originaria per cui alla rappresentanza psichica ideativa di una pulsione viene interdetto l’accesso alla coscienza. Questa rimozione originaria fungerebbe da attivatore della funzione rimovente e da attrazione per gli elementi rimossi: questo stadio successivo della rimozione è “la rimozione propriamente detta, che colpisce i derivati della rappresentanza rimossa, oppure quei processi di pensiero che pur avendo una qualsiasi altra origine sono incorsi in una relazione associativa con la rappresentanza rimossa.

In forza di tale relazione queste rappresentazioni incorrono nello stesso destino di ciò che è stato originariamente rimosso. La rimozione propriamente detta è perciò una post-rimozi0ne. E’ inoltre erroneo dar rilievo soltanto alla ripulsa che viene esercitata dalla coscienza su quanto ha da esser rimosso. Entra pur sempre in gioco anche l’attrazione che il rimosso originario esercita su tutto ciò con cui può collegarsi. E probabilmente la coscienza rimuovente non raggiungerebbe il suo scopo se queste due forze non agissero congiuntamente, cioè se non vi fosse un rimosso anteriore, pronto ad accogliere quanto la coscienza allontana da sé” (Freud, “la rimozione”, 1915).

Il versante neurobiologico e cognitivo-comportamentale

definisce l’ansia come processo che in termini quantitativi può essere normale o patologico. Riconoscendo una funzione all’ansia, rispetto alle prestazioni, secondo il meccanismo attacco-fuga: l’ansia normale: sarebbe quindi uno stato preparatorio che, attraverso l’attivazione tensiva posta da uno stato di allarme, andrebbe a potenziare le capacità operativa e quindi avvantaggiando alla riuscita; l’ansia patologica: sarebbe una attivazione sproporzionata rispetto alla situazione che va affrontata, e che invece di avvantaggiare alla riuscita, la invalida e comportando accumuli di distress.

In questa ottica l’ansia, se patologica, va contrastata diminuendo l’attivazione tensiva.  “A livello superficiale, una delle cause principali del disturbo è l’interpretazione errata dei sintomi dell’ansia. I sintomi vengono cioè avvertiti come pericolosi, come perdita di controllo e sopraffazione. In poche parole si arriva ad avere “paura della paura” e così l’ansia genera ulteriore ansia, dando il via a una spirale che, in modo estremamente veloce, porta il soggetto a stare male, all’incapacità, all’attacco di panico. Una sensazione inconsueta, ad esempio un formicolio, un leggero giramento di testa (tutti, ogni giorno, hanno questo tipo di sensazioni corporee, assolutamente normali) può generare il timore di avere un malore”.

Una terza lettura 

possibile dell’ansia esce dal criterio individualista dei precedenti, e prende in considerazione visioni psicosociali, anzi precisamente dei legami sociali. Esisterebbe in tal senso un matrice relazionale e sociogenica dell’ansia. La nostra società è confrontata con cambiamenti: a cui corrispondono profondi elementi di perdita e di un ordine non definito. Diversi sociologi hanno mostrato come la perdita del contratto intersoggettivo ed intergenerazionale, cioè quell’accordo che ci permetteva di poterci costruire saldamente attraverso un investimento collettivo e gruppale, abbia portato in crisi la base narcisistica del nostro essere. E’ essenzialmente, quindi, una crisi di legami: legami affettivi, culturali, sociali, economici…

Esiste inoltre l’esperienza sostanziale dell’inconsistenza della volontà sui processi sociali: gli eventi sociali sono anonimi, accadono senza un responsabile, come ondate di energia prive di un contenitore chiaramente riconoscibile. Esiste sempre più netta la distanza tra la community, un ipercontenitore che domina e neutralizza la soggettività (la aliena), e l’individuo che reagisce, egoista, vorace, amorale, un contenitore grandioso in cui si sperimenta un profondo senso di vuoto e solitudine. L’uomo contemporaneo è slegato dunque, vacante, alla deriva, in un mondo di processi anonimi, ininfluenzabili. Kaes sostiene che esista un angoscia connaturata nel nostro tempo, che investe la soggettività, o meglio l’intersoggettività.

Con intersoggettività si fa riferimento alla capacità di mentalità plurale del soggetto: identificare la propria soggettività attraverso la possibilità di operare con la mente una oscillazione, o una compresenza, tra l’identificazione dell’altro e l’identificazione di se stesso.

L’intersoggettività è quindi caratteristica dell’identità.

La mancata acquisizione dell’intersoggettività o la sua destrutturazione porterebbe ad uno smarrimento dei confini e verso una fusionalità smembrante del soggetto inghiottito dal tutto, un non sapere chi si è, che di per sé richiama attivamente il prototipo di tutte le angosce: l’angoscia di disintegrazione. Sarebbe l’esperienza di essere ininfluente, inconsistente, trasparente, di riflettere solo luci altrui, essere come di fronte ad una madre sconfinata e ultrapotente nella impossibilità di essere qualcosa d’altro, di autentico, dalle alienanti attribuzioni di lei: una relazione che non consente di scambiare costruttivamente emozioni, pensieri, stati mentali, perché manca l’esperienza di riconoscimento dei confini.

Per Kaes (come puntualmente esposto in un Seminario SPI del 2013), alcuni fattori starebbero alla base di questo malessere contemporaneo: Anomia, disordine e afinalizzazione. In contrapposizione reattiva, la cultura del controllo, del potere dell’ordine. In ogni caso, controllo coercitivo e caos non permettono i necessari movimenti di simbolizzazione che permettono l’esperienza dell’intersoggettività. L’esperienza dell’illimitato: corrispondente al tentativo di grandiosità dell’individuo per staccarsi, corrispondente al rifiuto della castrazione e del trionfo del godimento. Senza il limite, tuttavia, non c’è possibilità di contatto, quindi di una esperienza autentica di sé e dell’altro; Il tempo s’è ridotto, e l’immediato prevale sul progettuale, e ciò significa che non si tollera il rimando, perché non ha un luogo, perché il rimando è il non avere.

Quindi l’avere è qui, è ora, è intenso, “è consumabile in modo illimitato finché c’è”.

Il legame è con oggetti che ci sono, che si prestano ora: non è con ciò che non è presente, con la storia, con il futuro, con ciò che è lontano, con ciò che è importante, anche se assente. Questo comporta la cultura dell’emergenza, dell’assenza di una mentalizzazione articolata (legami!) delle esperienze, dove tutto avviene di improvviso, nel bene e nel male; cultura della malinconia: l’intensità, l’illimitato, il trattenimento e il controllo, l’esperienza fissata sul qui e ora, tutto questo espone a sperimentare la continua perdita, un lutto costante, la sensazione di non arrivare mai a niente. A questo si anellano ulteriori reazioni persecutorie e maniacali, e così via, in una spirale sempre più intensa;

La perdita dei riferimenti e i legami che non tengono (assenza dei garanti metasociali e metapsichici): “i sogni non riparano più i microtraumi della vita quotidiana e le fictions non fanno che addormentarli. […] E’ l’incertezza sul presente, la diffidenza nei confronti delle trasmissioni che non generano avvenire o al contrario l’esaltazione ottusa dei fondamentalismi, l’estrema e fragile dipendenza dagli oggetti tecnici, dalle urgenze, dai legami effimeri, etc. ciascuno può compilarne la lista”. I contratti si stracciano, così come i legami, la tradizione e la cultura scompaiono, così come si fa trasparente l’identità. L’esperienza sociale è fuori dall’inquadramento di setting, e quindi difficile regolarla, essere agente.  L’individuo trasparente e passivo è alternato da un superman grandioso, perduto e confuso all’interno del suo personaggio individuale.

 “…penso che sia possibile caratterizzare il malessere contemporaneo con la difficoltà di costruire questo luogo dove mettere ciò che troviamo” (Kaes, sempre dal seminario SPI 2013).

Come si tratta allora l’ansia? 

Queste impostazioni hanno un presupposto di divergenza, appunto “evitare” o “conoscere”: La prima presuppone un’ansia-patologica, sulla quale bisogna intervenire per poterla controllare, abbassandone l’intensità: la terapia ha una finalità espulsiva e di eliminazione del problema. Tendenzialmente abbiamo tutti esperienza di misure difensive dall’angoscia e strategie di evitamento di situazioni pericolose. Si tratterebbe quindi di fare “come-se”. Una delle parole chiavi in quest’ottica è “gestione–dell’ansia”, e possono fare al caso: i farmaci (benzodiazepine), le strategie cognitive (cognitivo-comportamentale, ecc), un insieme di “misure difensive di sicurezza”, le tecniche “corporee”, meditazione e rilassamento, ecc.

Nella seconda l’ansia funge perlopiù da sintomo-segnale di un conflitto inconscio. L’ansia allora non sarebbe un problema in sé, ma l’allarme per qualcosa che vorrebbe accadere, ma che attualmente non ci si consente che accada. I conflitti dominanti sono legati a vissuti invasivi, che rimandano a temi di indipendenza-separazione, con elevate componenti di frustrazione e rabbia inesprimibile. Sarebbe dunque il bisogno di controllo a far emergere questi conflitti con una pressione emergente della verità psichica. Il lavoro consisterebbe quindi nel cogliere il senso di qualcosa che vuole divenire e che preme dolorosamente, impedito dal controllo, creando scenari di pericolo , di presenza di elementi alieni e di una temuta perdita di tenuta.

L’obiettivo in questo lavoro non sarebbe allora di eliminare l’ansia, ma di riuscire a coglierne il messaggio affettivo sottostante. Sarebbe proprio nella possibilità di tollerare l’ansia senza doverla eliminare il segno di un processo di sviluppo dell’Io. Non sarebbe quindi la presenza o meno di ansia, l’indicatore del progresso, ma la capacità del soggetto di utilizzare l’ansia, in termini adattivi per affrontare e gestire i problemi .

Con Bion, si tratterebbe di trasformare e rendere “pensabili” le angosce, affrontando un percorso di contatto della verità. L’angoscia, in un’ottica psicodinamica, avrebbe una tipicità espressiva in relazione ai livelli evolutivi del conflitto da cui origina:

angoscia di disintegrazione: legata a fantasie perdita di integrità e fusionalità disperdente con l’oggetto. Rappresentano gli scenari dell’istinto di morte che opera all’interno della personalità; angoscia persecutoria: frutto dell’animazione oggettuali di proiezioni di parti cattive e aggressive, vendicative e attentatrici; angoscia da separazione: paura di perdere l’oggetto d’amore, con scenari abbandonici, di vuoto e solitudine; angoscia da mancanza d’amore: paura non che l’oggetto scompaia, ma che non sia più nutriente e disponibile; angoscia di castrazione: legata a scenari edipici e a fantasie di lesioni corporali e di mutilazioni; angoscia superegoica: fondate sul senso di colpa e di inadeguatezza rispetto a standard o aspettative, quindi angosce di fallimento e di “incapacità di riuscita”.

L’organizzazione gerarchica delle varianti dell’ansia può portare all’errata conclusione che i livelli di ansia più primitivi vengano superati con il procedere dello sviluppo. Di fatto tali livelli persistono, e possono essere riattivati con facilità in situazioni traumatiche o di stress o in gruppi numerosi” (Gabbard, 2007). Nella terza ipotesi sarebbe l’esperienza della intersoggettività a restituire una possibile terza via e quindi di ricomposizione dei legami di scambio, tra: il bisogno di prendere e nutrirsi in modo illimitato, identificandosi col tutto, per avvicinare una esperienza di completezza, a quel luogo sociale così distante, superiore e indecifrabile, in cui è difficile essere soggetto; e la difesa paranoide, controllante, espulsiva dell’incertezza e intenta a proiettare la propria angoscia data dalla frammentazione dell’esperienza di sé.

L’ansia in questo terza prospettiva non dovrebbe ricercarsi nel “solo” conflitto intrapsichico, né trattata come patologia in sé (levare l’ansia…), ma potrebbe leggersi come un segnale di sofferenza dell’identità: sarebbe allora possibile riavviare un processo di definizione di sè solamente attraverso l’esperienza di legami, legami fondati sulla ricerca del riconoscimento plurale delle diverse verità che sottendono le soggettività, le differenze e le realizzazioni che ne derivano.

“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”

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Fonte: Dott. Simone Montagnoli
Immagine: “Guernica”, Picasso (part.)

ICHAZO   BIRDY

LE PASSIONI DOMINANTI – La teoria psicologica di Oscar Ichazo

LE PASSIONI DOMINANTI

La teoria psicologica di Oscar Ichazo

“Al centro di ogni carattere, in reciproca relazione l’uno con l’altro, sono presenti una forma di motivazione da carenza e un errore cognitivo”
O. Ichazo 

Oscar Ichazo (Bolivia, 1931 – 2020) insegnò in Cile nell’Istituto di Psicologia Applicata di Santiago e ad Arica (al confine tra Cile e Perù). Dichiarò di essere entrato in contatto con la sapienza Sufi in Afghanistan.

Le sue teorie sono molto complesse, hanno radici profonde e una dimensione che non verrà trattata in questo post che deve essere considerato solo come il tentativo di una sistemazione divulgativa estremamente ridotta di una visione.

Visione che spero possa essere considerata interessante, pur nella semplificata esposizione.

La teoria di Ichazo si basa sull’individuazione di alcune modalità in cui l’ego di una persona diventa fisso nella psiche in una fase iniziale della vita.

Per ciascuna persona, una di queste fissazioni dell’ego diventa il nucleo di un’immagine di sé intorno alla quale si sviluppa la propria personalità psicologica e il proprio carattere.

Ogni fissazione è anche supportata a livello emozionale da una particolare “passione “.

Gli insegnamenti di Ichazo sono stati progettati per aiutare le persone a trascendere, a superare, la loro identificazione con i propri modelli automatici e inconsci di pensiero e di comportamento e con le sofferenze causate da essi.

Ichazo ha indicato i tre istinti umani fondamentali per la sopravvivenza: “conservazione”; “relazione” e “adattamento”.

Dunque secondo Ichazo, la fissazione di una persona deriva dall’esperienza soggettiva nell’infanzia del trauma psicologico che viene vissuto quando le aspettative non sono rispettate in ciascuno degli istinti di base.

Ogni personalità rappresenta la cristallizzazione e l’irrigidimento delle difese infantili nel processo di adattamento precoce con l’ambiente e si struttura attorno a un nucleo emozionale (“passione” dominante), un nucleo cognitivo (“fissazione” dominante) e un nucleo che riguarda la sfera degli istinti che regolano l’attività umana.

Gli esseri umani, nei loro primi anni di vita, sono auto-centranti e perciò possono essere disattesi nelle loro aspettative in uno o in più di uno dei tre atteggiamenti fondamentali.

Da tali esperienze, il pensiero automatico e i modelli di comportamento si presentano come tentativi di difesa contro la ripetizione del trauma da carenza.

Conoscendo le proprie particolarità con la pratica dell’auto-osservazione si ritiene che una persona possa ridurre o addirittura trascendere la sofferenza causata dalle fissazioni.

Lo scopo del terapeuta è quello di individuare, insieme al paziente, le tendenze principali del carattere, le visioni del mondo e le attitudini, nonché le più probabili ipotesi evolutive, permettendo di accrescere le possibilità di auto-comprensione e di trasformazione interiore del paziente superando gli automatismi e eliminando le sofferenze radicate nell’attaccamento e nella identificazione con questi meccanismi difensivi che, Ichazo insegna, in qualche modo tentano di proteggerci dalla sofferenza, ma che in realtà non fanno altro che perpetuarla.

ARGOMENTI ARGOMENTI DI PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

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Dott. Donato Saulle

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Fonti:
O. Ichazo, Interviews with Oscar Ichazo, Arica Institute Press, 1982
C. Naranjo, Atteggiamento e prassi della teoria gestaltica, 1991
A. H. Almaas, L’ enneagramma delle idee sacre. Aspetti molteplici della realtà, Trad. D. Ballarini, Astrolabio, 2007
Igor Vitale, Enneagramma. La storia dal sufismo in poi Gurdjieff, Ouspensky, Ichazo, marzo 2nd, 2013 | Posted by Igor Vitale in Psicologia Clinica, http://www.igorvitale.org/category/psicologia-clinica/ consultato il 10/07/2017
S. Vegetti Finzi, Storia della Psicanalisi, Autori opere teorie 1895-1990, Mondadori 1990
https://en.wikipedia.org/wiki/Oscar_Ichazo
https://en.wikipedia.org/wiki/Arica_School
Immagine di copertina tratta da: Birdy – Le ali della libertà (Birdy), Alan Parker, 1984blu psicologo milano

LE LOGICHE DEL DESIDERIO 1

LE LOGICHE DEL DESIDERIO

LE LOGICHE DEL DESIDERIO

Cosa sappiamo del desiderio umano?
L’opinione prevalente nel senso comune è che l’essere umano scelga in modo completamente autonomo di orientare il suo desiderio su un oggetto. Questo spiega la nascita del desiderio con il fatto che ogni oggetto possiede un valore che lo rende desiderabile in sè.
Questa visione lineare del desiderio che collega direttamente il soggetto all’oggetto è di una semplicità evidente. L’essere umano sembrerebbe però essere intrinsecamente più complesso e questa teoria non spiega fenomeni come l’invidia o la gelosia.
In questo post è mia intenzione proporre, in modo anche casuale, arbitrario e semplificato, come alcuni studiosi e autori di ambiti diversi hanno teorizzato le logiche del desiderio.

Lacan colloca il desiderio nella mancanza. La mancanza caratterizza ogni itinerario che dal bisogno conduce al desiderio. Il desiderio inconscio è ciò che si oppone alla mancanza. Non si può nominare, ovvero non c’è un significante, una parola che può definirlo totalmente, ma rimanda sempre a qualcos’altro. Altro, non inteso come uomo ma come luogo; altro da sè. Non è desiderio di qualcosa di materiale; è innanzitutto desiderio del desiderio dell’altro, desiderio di ciò che l’altro desidera, desiderio di essere desiderato dall’altro, di essere riconosciuto dall’Altro.
Il desiderio è anche una metafora. Si esprime in modo costruttivo nelle sembianze di una passione, di un ideale, di una ricerca che dia senso, che offra consistenza alla propria vita. E’ inconscio, è una spinta: è un movimento che orienta la propria esistenza. E’ un motore ed è ciò che dà vitalità al soggetto. In senso negativo è negazione di parti di sè e origine di conflitti intrapsichici e sociali.

Nella terapia della Gestalt di Perls la logica del desiderio si colloca all’interno di una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. E’ quindi ancora determinato da un bisogno e ha come scopo la sua soddisfazione. Una volta soddisfatto il bisogno il desiderio è appagato e ne emergerà uno nuovo. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o un qualsiasi altro bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento e in alcuni casi seleziona elementi della realtà distorcendola.

Alcuni recenti studi sull’empatia e sui “neuroni specchio” invece sostengono che nel comportamento umano si riscontra una dimensione imitativa, cioè una volontà di imitare il proprio simile.
Tale atteggiamento è indispensabile all’uomo per diventare tale, per apprendere a parlare, a camminare, a conformarsi a delle regole e a integrarsi in una cultura.
Ed è sempre per imitazione che desideriamo ciò che anche un altro desidera.
Già Girard sosteneva che non esiste un vero desiderio individuale, ma solo un desiderio mediato, che imita il desiderio di un’altro che ha suggerito l’oggetto da possedere.
Tutto ciò significa che il rapporto tra soggetto e oggetto non è diretto e lineare, ma è sempre triangolare: soggetto, modello, oggetto desiderato.
Al di là dell’oggetto, è il modello (che Girard chiama «il mediatore») che attira il desiderio. In particolare, a certi stadi di intensità, il soggetto ambisce direttamente all’essere del modello.
Focalizzare il proprio desiderio su un modello, è già riconoscergli un valore che si pensa di non possedere ed equivale a constatare la propria insufficienza di essere umano e dare a sè stessi un giudizio di valore.
Così si istituisce la mediazione del modello ed una prima trasfigurazione dell’oggetto. Ad esempio, quell’automobile è qualcosa di più di una automobile, altrimenti  qualsiasi modello d’auto servirebbe allo scopo; e invece è  l’oggetto su cui proietto la mia carica libidica, che mi permette non solo di avere ma sopratutto di essere.
Di essere e di avere quelle caratteristiche che io attribuisco al possessore dell’oggetto.
Per questo Girard parla di desiderio «meta-fisico»: non si tratta per lui di un semplice bisogno perché «ogni desiderio è desiderio d’essere».

Dott. Donato Saulle

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Fonti:
“La teoria del desiderio mimetico in René Girard. Verità romanzesca e menzogna romantica”.
“René Girard: di miti, religioni e capri espiatori” di Marco Aime
“La mancanza e il desiderio” – Giselle Ferretti
Bruno Moroncini, Rosanna Petrillo, Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan
https://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Girard
Garzanti – Psicologia a cura di U.Galimberti
Zerbetto Riccardo, “La Gestalt. Terapia della consapevolezza”, Milano, Xenia, 1998
Perls Fritz, Baumgardner Patricia, “Terapia della Gestalt. L’eredità di Perls – Doni dal lago Cowichan”, Roma, Astrolabio, 1983
Pessa Eliano, ”Reti neurali e processi cognitivi”, Roma, Di Renzo Editore, 1993
Immagine:  “Nocturnos” – Ricardo Cinalliblu psicologo milano

Tags: Conflitto, Lacan, Gestalt, Perls, capro espiatorio

IL SENTIMENTO DELLA VERGOGNA

IL SENTIMENTO DELLA VERGOGNA

“Il fondamento della vergogna non è il nostro sbaglio personale,
ma che tale umiliazione sia visibile a tutti.”

Milan Kundera.

Il senso della vergogna viene descritto come:
– un turbamento o senso di indegnità avvertito dal soggetto che presume di ricevere, o effettivamente riceve, una disapprovazione del suo stato o di una sua condotta da parte degli altri,
– un senso improvviso e sgradevole di nudità, di sentirsi scoperti, spogliati, smascherati,
– un senso di paralisi, di blocco, un sentirsi irrigiditi, pietrificati,
– il conseguente desiderio di sparire, di sprofondare, di diventare invisibili.

La sensazione generale che ne deriva è una sorta di profondo turbamento, di disorientamento, di confusione, desiderio di fuga e di blocco dell’azione.
La vergogna è conseguente ad una sensazione di smascheramento: viene violato ciò con cui ci si copre per proteggere l’intimità del proprio sé e l’immagine diventa improvvisamente evidente all’occhio esterno, alla vista degli altri; ci si percepisce nudi, esposti allo sguardo altrui, visti per come si è e non ci si sarebbe voluti mostrare.
Spesso l’individuo mette in atto modificazioni nello stile di vita di relazione che tendono a limitare la libertà di azione, per timore di dover fare i conti con questa condizione emotiva disagevole.
Centrale quindi nello sviluppo e nel mantenimento del problema è la paura del giudizio dell’altro, probabilmente per le esperienze precoci di invalidazioni di vissuti emotivi fondamentali.
Questi sentimenti dolorosi hanno come conseguenza l’orientarsi verso stili di vita caratterizzati da timidezza e distacco dagli altri.

Una caratteristica specifica della vergogna è il suo carattere instabile e aleatorio che la rende talvolta più difficile da cogliere e riconoscere rispetto ad altre emozioni: è una emozione episodica, in cui non si resta a lungo, che tende piuttosto a trasformarsi in altre emozioni simili (rabbia, colpa, invidia, ansia).
Funziona prevalentemente per accessi, del tipo tutto o nulla e tende a coinvolgere globalmente il sé.
Inoltre presenta un carattere di contagio e di transitività: si prova vergogna per essersi vergognati, si prova speculare vergogna o imbarazzo di fronte all’improvviso vergognarsi di qualcuno, ci si vergogna di parenti o amici.
Queste caratteristiche rendono difficile l’ascolto della vergogna e quindi la sua reale e profonda accoglienza e accettazione da parte di chi la sperimenta: si tende più facilmente a fuggirlo.

Vergognarsi del proprio corpo, della sua forma, della sua goffaggine o rigidità di movimento è un modo piuttosto immediato attraverso cui si esprime la vergogna di sé, la non accettazione, l’autogiudizio e l’autocondanna.
L’intensità del vissuto di vergogna è variabile: quando è sentita come insopportabile la vergogna viene nascosta o più spesso camuffata in rabbia, odio, a volte invidia o depressione, apatia, ritiro.
Inoltre la vergogna si pone sul crinale tra intrapsichico ed interpersonale: si tratta infatti di un sentimento che riguarda contemporaneamente la sfera della massima intimità dell’individuo e della sua interiorità, il senso di sé e le sofferenze e i disagi ad esso connesse, la dimensione relazionale e sociale in quanto concerne i vissuti relativi al sentirsi visti dall’altro.
Quindi il senso di vergogna mette in relazione l’esperienza intrapsichica con quella interpersonale, la sfera narcisistica e la sfera cosiddetta oggettuale, ponendosi su un terreno di mediazione tra i due versanti, che del resto sono sempre intimamente intrecciati.

Sul piano interpersonale la vergogna è spesso associata ad un atteggiamento di sottile competizione, in cui io mi percepisco irrimediabilmente perdente, mentre l’altro – generalmente un altro significativo – diventa luogo di proiezione dei vari aspetti del mio sé ideale.

Un’altra manifestazione che tende a difendere il sé dalla vergogna è la rabbia. Questa si presenta come un bisogno incoercibile di vendicare un torto vissuto, come una ferita narcisistica allo sviluppo affettivo del sé, che ha generato un profondo senso di umiliazione (Kohut, 1971). Molte volte la rabbia si presenta in forme più sottili, ad esempio attraverso il sarcasmo o l’ironia, ed ha la funzione di far provare all’altro il senso di umiliazione e vergogna che si è sperimentato.

Alcuni psicoanalisti americani  hanno descritto il cosiddetto “ciclo della vergogna-rabbia”: in questo ciclo accade che ci si vergogna di se stessi, del proprio essere troppo passivi, incapaci o comunque difettosi rispetto a qualcun altro, e che tale vergogna produce un ritiro in se stessi, ma anche risentimento e  rabbia  verso l’altro contro cui ci si scaglia, almeno mentalmente. Questa aggressione genera colpa, ulteriore ritiro e quindi aumento di vergogna, per cui il ciclo alimenta se stesso.
Per quanto riguarda la relazione interpersonale, quando è presente il senso di vergogna, si tratta di una relazione che non è, o non è ancora, reciproca, intersoggettiva, dove l’uno e l’altro siano percepiti entrambi soggetti, con uguale diritto di esistenza, pur nella diversità, bensì di una relazione fortemente asimmetrica, del tipo soggetto-oggetto, dove l’Altro, quello vincente, da cui ci si sente guardati (male) è il Soggetto, percepito come giudicante, sprezzante, svilente nei confronti dell’oggetto che sta osservando, quell’oggetto fallito, difettoso, insignificante, patetico e ridicolo che è esattamente ciò con cui chi prova vergogna si sta identificando.
La vergogna sta qui ad indicare lo scacco subito, il senso di indegnità avvertito da chi riceve, o presume di ricevere, un disconoscimento grave rispetto al proprio essere.
Interessante a questo proposito è l’interpretazione filosofica che J.P. Sartre dà della vergogna.
Egli riconduce la vergogna al puro e semplice fatto di essere esposti allo sguardo dell’altro, cosa che, rendendoci oggetto di osservazione da parte di un soggetto altro, ci deruba della nostra soggettività, per ridurci ad oggetto del suo spettacolo.
La vergogna scrive “non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente, cristallizzato che sono io per gli altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione degli altri per essere ciò che sono”.
Il sentimento di vergogna, sia quella che subiamo e sia quella che, più o meno inconsciamente, tendiamo ad indurre e ad alimentare, può gradualmente ridurre i suoi effetti invalidanti, nella misura in cui favoriamo il crescere, nelle nostre relazioni, della consapevolezza e dell’attenzione per la propria e l’altrui soggettività.
La consapevolezza cioè del fatto che pur essendo in questo momento oggetto del mio sguardo, l’altro continua a mantenere una propria autonomia, una propria soggettività, che fa sì che esso non si esaurisca mai totalmente in ciò che io vedo.
Mantenere la consapevolezza del mistero che ciascun soggetto continua ad essere, per se stesso e per l’altro, della molteplicità di aspetti che non sono mai del tutto evidenti ed oggettivi, la consapevolezza cioè di uno svelamento ulteriore sempre possibile e mai completamente esaurito.
E qui torna spontaneamente ad imporsi all’attenzione quell’aspetto della vergogna che sembra portare in sé il passaggio evolutivo di affermazione della soggettività che spinge a difendere il proprio Sé, e di conseguenza quello altrui, da intrusioni invasive nella sfera dell’intimità.
Ci sono identità socialmente considerate deplorevoli, ( i “capri espiatori” ) che sono spesso identificati per razza, classe sociale, cultura di origine, etnia di appartenenza e orientamento sessuale, che hanno il fine di scaricare la frustrazione comune per mantenere il precario equilibrio di società e di persone scarsamente evolute.
All’interno di queste identità sociali il sentimento della vergogna può essere più o meno forte, più o meno esplicito e può nascondersi anche dietro marcate dichiarazioni di appartenenza.
Questo sentimento di vergogna è anche inevitabilmente la risposta ad uno sguardo purtroppo oggettivante di chi, sentendosi “il Soggetto” tende a rendere l’altro “cosa”, spogliandolo del suo diritto di soggetto.
Credo sia necessario riconoscere la responsabilità dello sguardo, del modo di guardare, di pensare e di parlare a noi stessi, all’altro, al mondo, con il fine di ridurre “l’effetto Gorgone” da cui siamo circondati, ovvero “lo sguardo che pietrifica”, immagine simbolicamente evocativa della sofferenza connessa al sentimento della vergogna.

 

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Fonti:
Agnese Galotti -Vergogna e immagine di sè
http://www.geagea.com/52indi/52_08.htm
Umberto Galimberti – Psicologia – Garzanti
Meterangelis G. – La Vergogna e le organizzazioni narcisistiche patologiche (2011)
“Rifugi della Mente – Processi di sviluppo”
Immagine: Ricardo Cinalli – Risurrezioneblu psicologo milano

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Tag.
Psicologia, Psicoterapia, Vergogna, Psicologo Milano

 

NEL SEGNO DELL’ABUSO

NEL SEGNO DELL’ABUSO

“Vorrei svegliarmi in un mondo più gentile”

Le forme di abuso e di maltrattamento possono essere considerate da diversi punti di vista. In questo post vengono presi in considerazione quegli abusi costanti e striscianti, insiti in forme di comunicazioni e di relazioni tossiche, malsane e malate.

Vengono quindi prese in considerazione in modo primario le forme di abuso psicologico e solo marginalmente si parlerà di quelle forme che sfociano, in minaccia o atto, di abuso fisico o sessuale.

In questa ottica si considera fondamentale separare gli atti posti in essere con cosciente e consapevole volontà di causare un danno psicologico a un altro essere umano da quegli atti, e sono la maggior parte, che sono agiti in modo inconsapevole o inconscio ma che esitano comunque e sempre in una condizione di malessere in chi li subisce e, pur in maniera diversa, anche in chi li commette.

Fernandez  definisce l’abuso come “azione violenta che, condotta con intenzione e direzionalità, cerca di causare danno a una persona”.
In realtà non è sempre vero che l’abusante abbia sempre una consapevolezza intenzionale e come fine principale quello di procurare un danno (che comunque provoca e di cui sottovaluta le conseguenze), sembra però che a volte la spinta emotivo-affettiva si organizzi attorno a:
– sentimenti di onnipotenza;
– bisogno di sottomettere ed anche annichilire l’altro;
– bisogno di controllo assoluto sulla vita dell’altro;
– scaricare un desiderio distorto, caratterizzato cioè da una deformazione o deviazione dello stimolo rivolto a procurare un danno;
– comportamenti appresi nella sfera famigliare, subiti prima e riproposti poi.

Queste osservazioni riportano al quesito non risolto se si tratti di un atto istintivo che ha un valore in sé oppure se, al contrario, sia il risultato di un retroscena ampiamente psicopatologico (naturalmente ci sono i casi, che vanno chiariti, nei quali si può riscontrare una vera volontà di delinquere) che non è argomento di questo post.
Quando l’abuso si riferisce a un danno provocato, l’uso della parola non è corretto per cui bisognerebbe parlare di violenza che può essere agita sia sul corpo che sulla organizzazione psico-affettiva.
Quando l’abuso viene perpetrato involontariamente e con modalità velate, oscure o inconsce tutto diventa più complesso in quanto l’attore, e spesso la persona che subisce, non percepiscono la gravità delle conseguenze psicologiche che provocano questi atteggiamenti di continua e costante svalutazione.

La violenza psicologica si mette in atto provocando continuamente la vittima, con offese, denigrando, con il disprezzo e con l’umiliazione ma anche con il sarcasmo. Inculcando nella sua mente il seme dell’ossessione e dell’insicurezza, limitando la vittima della sua libertà o della sua intimità. Mentendo o mettendo l’accento sugli aspetti della realtà più svalutanti, con l’esclusione dal potere decisionale e spesso con l’isolamento.

In alcuni casi si possono rilevare modalità disfunzionali che coinvolgono interi sistemi familiari nella attuazione inconscia di comportamenti prevaricanti e non rispettosi dei confini e dei limiti di un singolo componente del nucleo familiare che, spesso, se segnala il proprio senso di disagio viene escluso o allontanato dal nucleo. Allontanarsi da un nucleo disfunzionale è a volte inevitabile ma nei casi di esclusione subita, senza aver compreso, anche a livello solo razionale, le dinamiche sottostanti, questo viene vissuto con sensi di colpa (una colpa senza nome) e non integrato in una visione di Sè e della propria biografia dotata di senso.

Dobbiamo quindi parlare di un trauma che riguarda per lo più la sfera psico-mentale e che coinvolge sia la potenzialità dell’attore che quella di chi subisce il trauma.
Una azione può risultare più traumatica se agita in pubblico, piuttosto che in privato, anche perché può essere più incisiva se suscita sensi di vergogna.
Può diventare traumatico non solo un atteggiamento attivo, ma anche una negligenza, una mancanza ed anche un semplice allontanarsi, un atteggiamento, una modalità anche non verbale.
L’azione traumatica può diventare tale se il soggetto si trova impreparato (da una azione imprevedibile) o in una condizione anche temporanea di debolezza (per es. un trauma verbale in una persona anziana, temporaneamente indifesa perché depressa o agitata per altri motivi) o incapace di sopportare l’ira, il sarcasmo o la fredda indifferenza dell’attore.
Anche un eccesso di accudimento può esitare nelle conseguenze di un abuso. Un dare continuamente senza lasciare il tempo di formulare e a volte nemmeno di pensare il bisogno. Saturare una richiesta prima che venga espressa. Soddisfare dei bisogni o prevenirli porta a soffocare la domanda e quindi il soggetto non può che allontanarsi o protestare per far comprendere, magari per vie negative la vera domanda.
In forma leggera la situazione è probabilmente più frequente di quanto si pensi ed è ampiamente sottovalutata perchè non causa evidenti problemi fisici immediati. La manifestazione più severa dell’ipercura è la  sindrome di Münchausen per procura, in questo caso si attribuisce, generalmente al bambino, sintomi e malattie di cui non soffre realmente, ma che sono piuttosto il frutto di una convinzione distorta, radicata nello stato di salute fisica e psicologica del genitore che trasferisce su di lui (per procura) il proprio stato e la propria convinzione di malattia.
Il trauma non produce generalmente danni fisici, e quindi visibili, immediati (se si eccettuano i momentanei stati d’ansia), ma successivamente si possono provocare:
– perdita dell’equilibrio psico-mentale;
– diminuzione del senso di sicurezza o condizioni di paralizzante insicurezza;
– paura di aver perso le proprie capacità mentali;
– sensazione di incapacità od insufficienza ad assolvere i propri compiti;
– convinzione di essere la causa di questo accadimento;
– diminuzione dell’autostima e perdita del senso di auto-soddisfazione;
– sentirsi senza via d’uscita,
– ridurre l’empatia e la dimensione dell’intimità.
– sentimenti di vergogna e colpevolezza
– ritiro sociale e abuso di sostanze

La violenza verbale può assumere anche aspetti di abuso se:
– svalorizza l’altro nelle sue capacità psico-fisiche, attitudini, potenzialità;
– blocca o devia gli argomenti dell’altro;
– ribatte ogni giustificazione;
– irride o minimizza i valori dell’altro;
– giudica e critica in maniera incontrovertibile, rifiutando ogni tipo di dialogo;
– confonde l’altro con argomentazioni ossessive;
– erode la fiducia e la determinazione dell’altro;
– insulta o alza smodatamente la voce;
– minaccia di passare alla compulsività fisica;
– approfitta di leggere dimenticanze, usando anche la manipolazione.

Le caratteristiche della violenza riguardano:
– produrre risposte d’angoscia: questa si definisce come risposta emotiva intensa, automatica e inconscia;
– incutere paura, che è una risposta mediata (non automatica), elaborata da processi personali consci ed inconsci e che, quindi, ha le caratteristiche che l’assimilano ai sentimenti;
– provocare uno stato di terrore nel quale è implicito un senso di impotenza totale che nei casi più gravi può far sentire di essere di fronte ad una esperienza catastrofica o ad una morte inevitabile.

A volte queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione diversa si presenta invece quando si è esposti a queste forme di legami per lungo tempo e a poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale sopratutto per l’infanzia, che è il periodo in cui i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo – quindi quello che accade a loro è, e diventa, per così dire, la legge dell’universo e la propria visione del mondo. E’ dunque chiaro che in questi casi non si tratta di un trauma isolato; siamo piuttosto di fronte a un modello ben determinato di interazione. Si può meglio capire la qualità interattiva di questo modello se si tiene presente che il doppio legame nell’adulto non può essere – per la natura della comunicazione umana – un fenomeno unidirezionale.

L’indice dell’importanza della violenza tiene poi conto del soggetto verso il quale l’azione viene agita, proprio perché, per esempio, un bambino o un anziano sono più vulnerabili di un adulto e un disabile ha meno capacità di difendersi.
Inoltre, le percezioni personali riguardo alla violenza si legano inesorabilmente alla percezione del livello di potenzialità aggressiva dell’attore sia per sé che per il ruolo che lo caratterizza e, quindi, sulle possibili ritorsioni in caso di autodifesa, di reazioni di contenimento o aggressive a loro volta.

Spesso si assiste a una notevole sottovalutazione del fatto che persone con problematiche personali ed emotive non risolte, e con scarse possibilità di risolverle da sole, producano comportamenti non empatici e non rispettosi dei limiti dell’altro e che questi possono determinare una condizione di abuso e provocare effetti intensi e duraturi negli anni che vengono a volte anche tramandati tra generazioni. L’abuso e il maltrattamento sono fenomeni  che non si risolvono con il semplice passare del tempo. Si cronicizzano. E’ necessario superare la paura anche solo di pensarle queste situazioni, evitare di negare che il problema esista o che si possa risolvere da solo.

Anche perchè a volte sono sostenute da persone che credono di possedere una presunta superiorità “morale”.

E’ necessario infine sottolineare che non tutto il dolore è patologia. Spesso il dolore, anzi l’essenza del dolore, è non conoscenza di sé, della propria biografia e delle dinamiche relazionali  e comportamentali che fanno parte della propria storia di vita.

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Dott. Donato Saulle

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Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388BLUFonte:
Romeo Lucioni, Ida Basso – Nel segno dell’abuso
http://www.slowmind.net/timologinews/abuso3.html
P. Watzlawick, J.H.Beavin, D. Jacson – Pragmatica della comunicazione umana
Umberto Galimberti: Il successo della filosofia – Feltrinelli Editore
http://www.feltrinellieditore.it/news/2003/10/23/umberto-galimberti-il-successo-della-filosofia-2200/
Immagine: Maurizio Bottarelli, Spiaggia nera a Mokau (particolare), 2007

Tags: Abuso, matrattamento, trauma, comunicazione, inconscio

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L ARMONIA PERFETTA 1

L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura

L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura

Nonostante le differenti interpretazioni che si riscontrano nelle varie culture ed epoche storiche, i colori (come abbiamo visto in un post precedente sulla psicologia dei colori) rappresentano in ogni area geografica e a ogni livello di conoscenza uno dei livelli più significativi della lettura simbolica del mondo esteriore e interiore. Per ciascuna cultura e per ciascun individuo ogni colore assume un certo significato ed esercita un certo effetto connesso a immagini, contenuti, figurazioni ed emozioni che il soggetto percepisce anche se non conosce.

In alcune tribù Balinesi si usa definire l’infinita gamma di colori in due modi: i colori chiari e i colori scuri. Scrive l’antropologo G.Bateson in Mente e Natura: “in tutte le forme di pensiero, anche se in qualcuna di più e in qualcuna di meno, c’è una fortissima tendenza a pensare e a parlare come se il mondo fosse costituito da parti separabili. Tutti i popoli del mondo, tutti i popoli esistenti e conosciuti hanno qualcosa che somiglia a una lingua e sembra che tutte le lingue si basino su una rappresentazione particellare dell’universo. Tutte le lingue hanno qualcosa di simile ai nomi e ai verbi, che isolano oggetti, enti, eventi, esperienze e astrazioni. In qualunque modo si esprima, la differenza suggerisce sempre delimitazioni e confini, produce conflitti e procura inutili soffferenze.

Se i nostri mezzi per descrivere il mondo scaturiscono da nozioni di differenza, allora la nostra immagine dell’universo non può che essere particellare.

Diffidare quindi della lingua e credere nella sostanziale unità dell’essere diventa un atto di fiducia.

Quando parliamo dell’universo non possiamo far altro che darne descrizioni suddivise. Ma queste suddivisioni in confini, in parti nominabili, possono essere fatte in tanti modi. Alcuni migliori, altri peggiori. A volte in buonafede a volte in mala-fede.

Chi delimita confini e marca diversità esprime una visione primitiva e parziale del mondo.

Come dice W. Blake in The Gost of Abel: “la natura non ha contorni”.

Dott. Donato Saulle

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blu psicologo milanoPsicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milanoTratto da:
Bateson Gregory – Mente e natura –  Psicologia – Adelphi Editore
Bateson Gregory – Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente –  Psicologia – Adelphi Editore
Galimberti Umberto – Psicologia – Garzanti
https://it.wikipedia.org-psicologia
Modelli di psicologia – Il Mulino
Immagine: Piet Mondrian | Armonia Perfetta
Immagine di copertina: Piet Mondrian | Armonia Perfetta (modificata)blu psicologo milanoTag. Psicologia, psicologia del colore, Armonia perfetta, Mente e natura, Il test dei colori, psicologia dell’arte

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LA PSICOLOGIA UMANISTICA DI ROGERS

LA PSICOLOGIA UMANISTICA DI ROGERS

“In ogni organismo, uomo compreso, c’è un flusso costante teso alla realizzazione costruttiva delle sue possibilità intrinseche.
Una tendenza naturale alla crescita”. Carl Rogers 

Carl Rogers

(1902-1987), è stato un importante psicologo e psicoterapeuta statunitense.

Attraverso le proprie esperienze cliniche e terapeutiche individuò nella condotta umana una serie diversificata di motivazioni, non completamente riconducibili al paradigma psicoanalitico del conflitto di natura sessuale, inserendo quindi, in accordo con Maslow, una più ricca serie di motivazioni dei bisogni primari e fisiologici.

Quindi con la psicologia umanistica di Maslow, la psicoterapia di Rogers si colloca entro un orientamento generale alternativo tanto alla psicoanalisi quanto alle terapie comportamentali di quel periodo.

L’orizzonte di riferimento di Rogers

L’orizzonte di riferimento di Rogers è la scuola culturalista dalla quale media l’atteggiamento di protesta nei confronti della società industriale e del tipo di pensiero scientifico che essa esprimeva in quel periodo storico.

In particolare la proposta di Rogers poggia sulla convinzione della positività dello sviluppo umano.

La personalità

La personalità dunque possiede innate tendenze all’integrazione, all’attuazione di sè, alla relazione con altri.

L’unità della personalità non è strutturale ma dinamica e può essere colta solo nel divenire e nel mutamento.

Ma il mutamento è spesso impedito dalla paura del nuovo.

Perchè fin dall’infanzia l’individuo è indotto ad accettare ed assimilare i valori del suo ambiente per non perdere l’amore delle persone di riferimento.

Tali norme costituiscono un blocco rigido che lo costringono a rifiutare tutto quanto appare incompatibile con esse.

Quando, nel corso della terapia, questa struttura difensiva viene superata, il paziente diventa capace di portare alla coscienza un numero sempre crescente di esperienze significative e di includerle in un concetto allargato di sè, aperto a ulteriori apporti di esperienza e a tutte le modificazioni indotte dal fluire della vita stessa.

La disponibilità al cambiamento

Per indurre questa disponibilità al cambiamento Rogers rifiuta tutto “l’arsenale tecnico codificato” e il concetto stesso di “metodo” in psicoterapia.

Per Rogers la cura può avvenire solo nell’incontro tra due persone: il terapeuta e il paziente.

Il modello di Rogers conserva il suo valore storico che consiste nell’aver denunciato ogni tecnicismo e nell’aver spostato l’attenzione dal sintomo al rapporto interpersonale e umano”.*

Con Rogers l’uomo è quindi riportato al suo compito di datore di senso, di un progetto esistenziale che eventualmente deve essere aiutato a ricostruire ricavandolo dentro di sè.

Il terapeuta deve favorire la libera espressione della emotività del paziente sostenendolo, senza influenzarlo, nell’autonomo processo di comprensione della propria realtà psichica.

Per definire questo aiuto Rogers propone non una tecnica ma un atteggiamento, un atteggiamento interiore verso la vita, verso gli altri e, preliminarmente, verso se stessi.

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Dott. Donato Saulle

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Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO– Cell. 3477966388BLUFonti:
* S. Vegetti Finzi, Storia della Psicanalisi, Autori opere teorie 1895-1990, Mondadori 1990
C.R. Rogers, Psicoterapia di consultazione (1942), trad. it. Astrolabio, Roma 1971
C.R. Rogers, La terapia centrata sul cliente (1953), trad. it. Martinelli, Milano 1970
U. Galimberti, Psicologia, Le Garzantine, Garzanti, Torino 1999
Immagine di copertina:
Edward Hopper, Second story sunlight, 1960

Carl Rogers

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TERAPIA DELLA GESTALT – La somma delle parti

TERAPIA DELLA GESTALT

“Il tutto è più della somma delle parti”

La parola d’origine tedesca Gestalt  tradotta in passato in modo inadeguato con il termine “forma”, corrisponde invece al significato di “struttura unitaria”, “configurazione complessiva”, termini questi più adeguati in quanto implicano anche un aspetto di organizzazione della forma percepita.

La terapia della Gestalt si inserisce tra le terapie umanistiche e nasce a New York nel 1950 circa dalle intuizioni di Friedrich Perls, psicoanalista tedesco, emigrato negli anni quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti.

La vita di Perls è stata una sintesi continuamente rinnovata e rivitalizzata da un insieme vastissimo di esperienze umane sempre nuove e sempre diverse.

La stessa cosa possiamo dire della sua terapia in quanto sarebbe molto difficile precisare quanto questo suo approccio terapeutico deve a questa o a quella filosofia a questa o a quella scuola.

Inoltre le tecniche che sono nel tempo diventate celebri e utilizzate da altre teorie, oltre che in terapia della Gestalt, come la tecnica della sedia vuota, hanno portato la terapia della Gestalt ad essere identificata a volte con approssimazione con le sue tecniche e deprivata del suo imprescindibile sistema filosofico di riferimento.

L’apparente purezza della sua pratica clinica basata sul quì e ora e sulla immediatezza, in alcuni casi sorprendente degli esiti, sembrano permettere di eluderne gli assunti teorici che si possono invece ritrovare come base per la terapia della Gestalt, nella Filosofia Esistenziale, nella Fenomenologia e nella Semantica.

Nei suoi scritti sulla terapia della Gestalt tuttavia Perls  che privilegiava uno stile e personale e creativo e che aveva una visione fondamentalmente eclettica e pluralista della terapia, pur citando le persone che hanno avuto influenza sul suo pensiero, non si è mai preoccupato di precisare che cosa esattamente aveva preso dall’uno o dall’altro.

E’ più facile quindi inquadrare la terapia della Gestalt a posteriori, inquadrandola storicamente e cominciando con il considerarla una parte importante della Psicologia Umanistica che si rifà alle concezioni di Maslow, Carl Rogers, Rollo May, ma che in realtà è diventata il polo di aggregazione di idee e di correnti che hanno, rispetto alla Psicoanalisi classica, una presa di distanza che comunque non è mai contrapposizione frontale ma piuttosto esigenza di integrazione, superamento in una concezione più vasta.

Storicamente negli anni ’50 – ’60 l’orientamento è di tipo psicodinamico: il disturbo psichico è considerato in termini biomedici anche per le innovazioni farmacologiche del momento. Contemporaneamente è riconosciuta l’inadeguatezza dei manicomi.

In questo periodo nascono nuovi modelli di riferimento; sociogenetici, comportamentali, umanistici, esistenziali e nuove psicoterapie: brevi, familiari, di gruppo, con tecniche differenti legate ai differenti disturbi.

In generale vi è una maggiore attenzione alla storia familiare, evolutiva e agli schemi adattivi messi in atto e che sono considerati fondamentali anche nella terapia della Gestalt.
Sullivan nel 1954 propone una teoria basata sulla nozione di campo relazionale secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come personificazioni interiori anche in situazioni di isolamento. In quest’ottica la terapia è demedicalizata, il rapporto medico-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale il terapeuta sviluppa un maggiore atteggiamento empatico e riconosce l’importanza delle determinanti ambientali e sociali.

L’elemento innovativo introdotto da Perls nella terapia della Gestalt fu di estrapolare i principi delle leggi di percezione applicandoli ad una dimensione esistenziale ed evolutiva dell’individuo e quindi alla possibilità di utilizzarli in psicoterapia.
Alcuni ricercatori della psicologia della percezione infatti come Koler e Wertheimer sostennero che c’è prima di tutto una formazione complessiva – che essi chiamano Gestalt (formazione della figura) – e che tutti gli altri pezzi isolati sono formazioni secondarie e formulano la teoria della Gestalt in questo modo:
“ci sono degli insiemi il cui comportamento non è determinato da quello dei loro singoli elementi ma dove i processi delle parti sono determinati dalla intrinseca natura del loro insieme. Questo è il significato della celebre frase il tutto è più della somma delle parti. Lo scopo della teoria della Gestalt è di determinare la natura di questi insiemi.”
La psicologia della Gestalt (vedi: “La psicologia della percezione“) identificava un processo percettivo unitario grazie al quale i singoli stimoli sarebbero integrati nel soggetto in una forma dotata di continuità.

Ciò che prima era stato considerato un processo passivo, il percepire, veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo e cioè come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali.Scrive E. Pessa: “i gestaltisti concepiscono il processo di soluzione di un problema alla stregua di un processo percettivo governato, per l’appunto, da leggi gestaltiche, leggi che fanno sì che si tenda a percepire una buona forma. Anche la situazione problematica, individuata da elementi e rapporti tra questi elementi, è una forma, che però è percepita come cattiva, mancante, incompleta: è proprio questo che fa sì che la situazione costituisca un problema in quanto tale. Le leggi della buona forma impongono, però, una ristrutturazione, nel senso del ristabilimento di una struttura completa, chiusa, ottimale, che costituisce di per sé la soluzione stessa del problema. L’atto di ristrutturazione costituisce il celebre insight, già introdotto da Kohler. Si tratta di una concezione dell’apprendimento molto qualitativa e difficile da verificare sperimentalmente. Tuttavia ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il ruolo dei fattori di tipo globale nei processi di apprendimento. In altri termini, essa asserisce che, accanto alle singole associazioni tra stimoli e risposte e sovraordinato rispetto a queste, esiste un campo, esattamente analogo ai campi di forze di cui parla la fisica, che determina globalmente la dinamica del processo di apprendimento e le storie delle varie connessioni stimolo-risposta. L’evoluzione di questo campo è governata da leggi che tendono al mantenimento di un opportuno equilibrio globale e, nel caso in cui esso sia turbato, fanno insorgere delle forze che provvedono al suo ristabilimento”
L’indagine psicologica è quindi essenzialmente diretta a rintracciare le leggi di questa strutturazione e che sono poi le leggi che regolano il nostro contatto con il mondo. Un altro aspetto fondamentale della psicologia della Gestalt, poi ripreso dalla terapia della Gestalt, è quello dell’organizzazione del campo percettivo in figura e sfondo, che fu introdotta da Edgar Rubin  e che mise in risalto come la figura emergente è generalmente contraddistinta da contorni definiti che rappresentano il focus dell’attenzione ed è caricata di una maggiore energia di relazione con l’osservatore. Lo sfondo, al contrario, rappresenta il resto del campo visivo ed è caratterizzato da attributi inversi a quelli menzionati per la figura emergente. E’ interessante notare come allo stesso Rubin non sfugga l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato. Di qui la tendenza,non casuale, a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione.
K. Lewin attuò inoltre un importante esperimento di memoria che sarà poi ripreso come fondamento per l’impianto teorico della terapia della Gestalt e che darà origine ad alcune tecniche per risolvere quelli che sono definiti “unfinished business” e cioè i “compiti non conclusi”.
Scrive Perls: “in un esperimento Lewin diede ad un certo numero di persone dei problemi da risolvere. Non era stato loro detto che era un test di memoria, ma avevano l’impressione che fosse eseguito un test di intelligenza. Il giorno dopo fu loro chiesto di scrivere i problemi che ricordavano ed erano proprio i problemi non risolti ad essere ricordati di più di quelli che erano stati risolti”.

E’ come se i compiti non conclusi e i problemi non risolti creino una sorta di interferenza e di frustrazione e fino a quando il compito o il blocco non è stato superato, concluso o risolto la mente non si libera del pensiero e i comportamenti si ripetono nel tentativo di superare il blocco o di risolverlo, a volte la persona non si rende conto in modo cosciente di questo blocco ed è per questo che a volte è utile l’incontro con un terapeuta.

La parola “soluzione”, nel linguaggio della terapia della Gestalt, indica la scomparsa e la dissolvenza di una situazione confusa.

Quindi una situazione non conclusa polarizza una carica di energia destinata a completarla rendendo la stessa energia non più disponibile per altri tipi di esperienza. Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della situazione stessa anche in luoghi e tempi successivi interferendo quindi con la possibilità dell’individuo di entrare efficacemente in contatto con i contesti cognitivi, emotivi e sociali in cui di volta in volta verrà a trovarsi.
Nella terapia della Gestalt di Perls questo concetto si dilata per definire una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. La relazione è determinata da un bisogno del soggetto e mira alla soddisfazione di questo bisogno. Una volta soddisfatto il bisogno la relazione cessa e si dice che la Gestalt è terminata. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o semplicemente un qualsiasi bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento.
Perls, appropriandosi in termini operativi dei concetti esposti sopra insiste soprattutto sul fenomeno della Gestalt non terminata come spiegazione del disagio psichico e sul concetto di integrazione come vera e radicale modalità terapeutica.

Scrive P. Baumgardner: “la terapia della Gestalt è un modo di occuparsi di un altro essere umano per dagli la possibilità di essere sè stesso, saldamente ancorato nel potere che lo costituisce, la terapia della Gestalt è una terapia esistenziale e si occupa quindi dei problemi creati dalla nostra paura di assumerci le responsabilità di ciò che siamo e di ciò che facciamo. E’ stato infatti sviluppato un procedimento terapeutico che, nella teoria della terapia della Gestalt e nella sua pratica, evita l’uso dei concetti. Egli distingue il procedimento terapeutico da quello del parlare intorno a qualcosa e delle problematiche morali lasciandoci lavorare con i dati, con i comportamenti osservabili che costituiscono il fenomeno invece che con ipotesi razionali. Queste differenziazioni sono di primaria importanza nella terapia della Gestalt, che si occupa quindi e si serve di ciò di cui abbiamo esperienza piuttosto che di ciò che è frutto del nostro pensiero. Il terapeuta della Gestalt deve perciò creare una situazione particolare: deve diventare il catalizzatore che facilita la presa di coscienza da parte del paziente riguardo a ciò che c’è nel presente, frustrandone i vari tentativi di fuga. Questa necessaria frustrazione, se non sapientemente dosata, può risultare, per alcuni tipi psicologici, particolarmente fastidiosa e può esitare in drop-out terapeutici.

Pears introduce, come abbiamo visto, come base del suo lavoro teorico la parola Gestalt e ne considera due tipi: la Gestalt completa o intera e la Gestalt in formazione. Parlando così della Gestalt come dell’unità finale di esperienza, esperienza riguardante prevalentemente la consapevolezza. A questo proposito le nozioni basilari che utilizzeremo sono quelle di bisogno e di situazione incompiuta e delle interrelazioni tra le due. Se le esigenze dell’organismo sono soddisfatte, attraverso il dare e ricevere dall’ambiente, la Gestalt è completa e la situazione compiuta. La consapevolezza del bisogno diminuisce, scompare ed emergono altri bisogni. L’organismo è pronto ad affrontare un’altra situazione incompiuta con le energie connesse alle nuove esigenze emergenti.

Lo scopo della terapia della Gestalt è quello di recuperare le parti perdute della personalità. Le nostre esperienze e le nostre funzioni rifiutate possono essere recuperate. Questo procedimento di riprendere, reintegrare e sperimentare di nuovo è il campo della psicoterapia. Il terapeuta viene coinvolto, insieme al paziente, nel processo di riappropriazione di tali sensazioni e comportamenti abbandonati  fino a che il paziente comincia, continuando poi per proprio conto, ad affermare sè stesso e ad agire nei termini della persona che vuole essere realmente.

Dott. Donato Saulle

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blu psicologo milanoFonti:
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TERAPIA DELLA GESTALT

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PSICOLOGIA DEL COLORE – L’influenza del colore nella psicologia e nell’arte

PSICOLOGIA DEL COLORE.

“Tempo fa in una  fabbrica gli operai si lamentavano con il proprietario per il freddo che sentivano nel locale mensa, un locale che aveva le pareti imbiancate con un tono di blu, e chiedevano di aumentare il riscaldamento.

Il proprietario, non essendo di questa idea, fece invece dipingere le pareti con un tono di arancio: il risultato fu che non solo gli operai non avvertivano più il freddo, ma addirittura venne abbassato il riscaldamento”.

La psicologia del colore

parte dal presupposto che sebbene il colore abbia sempre circondato la specie umana e l’abbia influenzata fin da tempo immemorabile, è solo di recente che si è diventati abili a produrre e ad usare il colore come si fa oggi.

Prima del XX secolo, erano conosciuti solo pochi tipi di coloranti e di pigmenti, ed erano perlopiù di origine organica. Erano anche molto costosi, cosicchè i tessuti colorati, come i tendaggi, erano il privilegio delle classi ricche. Centinaia di migliaia di molluschi diedero la loro vita perchè un imperatore romano potesse indossare la sua tunica di porpora di Tiro, mentre i suoi sudditi dovevano accontentarsi di cotone o lino maltessuto, pelli o lane monocromatiche.

Solamente negli ultimi cento anni, o poco più, tale quadro è cambiato radicalmente, in primo luogo per la sintesi dei coloranti di anilina, poi per i derivati del catrame di carbon fossile, infine per gli ossidi dei metalli; oggi soltanto poche delle cose che si fabbricano sono lasciate nel loro colore originale, senza essere tinte o colorate in toto o in parte.

Quando guardiamo un quadro o una foto a colori, il significato psicologico del colore è ciò che ci colpisce meno perchè contemporaneamente molti altri fattori vi sono coinvolti – contenuto, equilibrio di foggia o forma, equilibrio dei colori, l’educazione o la competenza e l’apprezzamento estetico di chi guarda. E’ possibile, qualche volta, dedurre le caratteristiche di personalità di un pittore quando pone grande enfasi su uno o due colori, per esempio l’ossessione di Gauguin per il giallo nei suoi ultimi quadri; ma, in generale, quando si usano molti colori per creare un tutto, è il giudizio estetico che valuta il tutto e che determina se un’opera ci piace o no, piuttosto che la nostra reazione psicologica a particolari colori.

I singoli colori

In caso di singoli colori, è possibile essere molto precisi, specialmente quando i colori sono stati accuratamente selezionati in base alla loro diretta associazione con bisogni psico-fisiologici come sostiene Lüscher che ha creato un test cromatico particolare. In questo caso, per Lüscher, le preferenze per un colore o il rifiuto di un altro significa qualcosa di definito, e riflette la situazione in atto dello stato psichico o dell’equilibrio personale, o di tutti e due.

E’ comunemente noto come il colori abbiano una influenza sul’organismo; sono stati ad esempio condotti esperimenti nei quali si richiedeva ad alcune persone di fissare il colore rosso vivo per intervalli di tempo variabili; essi hanno messo in evidenza che questo colore ha un effetto decisamente stimolante sul sistema nervoso; aumenta la tensione arteriosa e la frequenza respiratoria e cardiaca.

Il rosso è, dunque, come è noto, un eccitante del sistema nervoso, mentre esperimenti analoghi con il colore blu hanno evidenziato un effetto contrario, il colore blu è quindi considerato calmante nei suoi effetti.

Nel test completo di Lüscher, ci sono sette differenti tavole di colori, contenenti in tutto 73 tipici colori consistenti in 25 sfumature o gradazioni, e che richiedono di operare 43 differenti selezioni. Il protocollo che ne risulta offre, secondo Lüscher, una ricchezza di informazioni concernenti la struttura psicologica, conscia e inconscia, di un individuo.

La vita dell’uomo è sempre stata regolata dal ritmo del giorno e della notte, dal buio e dalla luce. In effetti, la luce ci riscalda, mentre il buio tende a rallentare il nostro tono e il flusso circolatorio.

I colori caldi sono quelli della luce: rosso, giallo, arancione; i colori freddi vanno dal viola al verde, al blu. La luce agisce sulla respirazione, è una spinta al piacere, all’attività; il buio e la penombra inducono uno stato di difesa, di calma o di allarme.

Ma per tornare ora alla storia dell’arte possiamo dire che W. Kandinsky definisce il rosso: “vivo, acceso, inquieto”; il suo significato simbolico si connette fondamentalmente con il tema dell’energia vitale. Al polo opposto troviamo il blu che J.W.Goethe definisce “un nulla eccitante”, una contraddizione composta di eccitazione e di pace. Il giallo, sempre per Goethe, è “il colore più prossimo alla luce. L’occhio ne viene allietato, l’animo si rasserena: un immediato calore ci prende”.

Il verde scrive Kandinsky

“non si muove in alcuna direzione e non ha alcuna nota di gioia, di tristezza, di passione, non desidera nulla, non aspira a nulla.

E’ un elemento immobile, soddisfatto di sè, limitato in tutte le direzioni”.

Risultando dalla composizione di blu e giallo, il verde è descritto da Goethe come un colore statico ed equilibrato, dove “occhio e animo riposano su questo composto come se si trattasse di qualcosa di semplice. Non si vuole e non si può procedere oltre”.

Come sintesi di rosso e blu, il viola allude alla integrazione degli opposti e delle ambivalenze, il marrone si connette alla terra e al carattere ancestrale femminile e materno, il grigio, che Kandinsky definisce “immobilità desolata”, risulta dalla mescolanza del bianco e del nero senza essere nè l’uno nè l’atro.

Lüscher scrive che “si distingue per le negazioni. Non è ne colorato nè chiaro, nè scuro. Il grigio è il nulla di tutto, la sua particolarità è la neutralità più completa”.

Tuttavia è il colore anche considerato più elegante.

Il nero è dato dalla assenza totale di luce, è perciò connesso all’oscurità, al mondo delle ombre. Sempre Kandinsky lo definisce “qualcosa di spento come un rogo combusto fino in fondo, qualcosa di inerte che è insensibile a tutto ciò che gli accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso”.

Il bianco è la fusione di tutti i colori dello spettro, in quanto non contiene alcuna dominanza che lo faccia propendere verso qualche colorazione, il bianco è il simbolo della purezza, quindi dell’innocenza. Kandinsky lo definisce come “un silenzio che non è statico, bensì ricco di possibilità, è un nulla giovane o, più esattamente, un nulla anteriore al principio, alla nascita.

Così risuonava forse la terra nei bianchi periodi dell’era glaciale”.

Nell’esperienza percettivo-emotiva i colori vengono spesso associati ai suoni per cui, ad esempio, i suoni alti richiamano generalmente colori chiari e i suoni bassi colori scuri;

in alcuni soggetti si verificano fenomeni di sinestesia (la sinestesia, detta anche sensazione secondaria, è un interessamento di altri sistemi sensoriali oltre a quello specifico) talchè simultaneamente all’ascolto, essi percepiscono determinati colori.

In psicologia C.G. Jung ha avanzato l’ipotesi che la preferenze individuale per determinati colori abbia corrispondenza con la funzione che ne caratterizza il tipo psicologico, perchè, a suo parere, l’azzurro corrisponde al pensiero, il rosso al sentimento, il giallo all’intuizione e il verde alla sensazione.

E infine bisogna ridordare la poesia di Rimbaud

“Inventai il colore delle vocali!
A nera,
E bianca,
I rossa,
O blu,
U verde.
Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusungai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi.
Fu all’inizio uno studio.
Scrivevo silenzi,
notti,
sognavo l’inesprimibile.
Fissavo vertigini”.

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Fonti:
Lüscher Max – Il test dei colori – Casa Editrice Astrolabio
– Bateson Gregory – Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente – Adelphi  Editore
– Galimberti Umberto – Psicologia – Garzanti
– http://www.oikos-group.it/contenuti/colore/colore-e-cultura/psicologia-archivio3
– https://it.wikipedia.org-psicologia
– Modelli di psicologia – Il Mulino
– http://www.homolaicus.com/linguaggi/teoria-colori.htm

PAUL DIRAC 1

(∂ + m) ψ = 0 – L’EQUAZIONE DI PAUL DIRAC

(∂ + m) ψ = 0

Paul Adrien Maurice Dirac (Bristol, 8 agosto 1902 – Tallahassee, 20 ottobre 1984).

Paul Dirac è stato un fisico e matematico britannico considerato tra i fondatori della meccanica e della fisica quantistica.

La meccanica quantistica è la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e delle loro reciproche interazioni.

La meccanica classica si dimostrò incapace di descrivere il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica a livello microscopico e su scale di lunghezza inferiori a quelle dell’atomo.

Come caratteristica fondamentale, la meccanica quantistica descrive la radiazione e la materia sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove per esempio la luce è descritta solo come un’onda o l’elettrone solo come una particella.

Paul A.M. Dirac

Paul A.M. Dirac, premio Nobel per la Fisica nel 1933, come teorico viene annoverato tra i fondatori della meccanica quantistica ed è famoso per le sue equazioni.

(∂ + m) ψ = 0  è l’equazione forse più famosa di Dirac e significa che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce».

É il cosiddetto fenomeno quantistico dell’«entaglement», che fornisce la base per la nuova visione filosofica del mondo.
Dirac era un ricercatore solitario, taciturno, al punto che i suoi colleghi, scherzando, avevano coniato una nuova unità di misura, il Dirac, che equivaleva ad una parola l’ora, il minimo che una persona potesse pronunciare in compagnia.
Ma, come succede spesso negli individui schizoidi, anche Dirac, dietro la sua apparente freddezza nascondeva una grande sensibilità.
La sua equazione  (∂ + m) ψ = 0  è ancora considerata la più “bella” della fisica.

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(∂ + m) ψ = 0 Dirac

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