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L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura

L’ARMONIA PERFETTA – Mente e natura

Nonostante le differenti interpretazioni che si riscontrano nelle varie culture ed epoche storiche, i colori (come abbiamo visto in un post precedente sulla psicologia dei colori) rappresentano in ogni area geografica e a ogni livello di conoscenza uno dei livelli più significativi della lettura simbolica del mondo esteriore e interiore. Per ciascuna cultura e per ciascun individuo ogni colore assume un certo significato ed esercita un certo effetto connesso a immagini, contenuti, figurazioni ed emozioni che il soggetto percepisce anche se non conosce.

In alcune tribù Balinesi si usa definire l’infinita gamma di colori in due modi: i colori chiari e i colori scuri. Scrive l’antropologo G.Bateson in Mente e Natura: “in tutte le forme di pensiero, anche se in qualcuna di più e in qualcuna di meno, c’è una fortissima tendenza a pensare e a parlare come se il mondo fosse costituito da parti separabili. Tutti i popoli del mondo, tutti i popoli esistenti e conosciuti hanno qualcosa che somiglia a una lingua e sembra che tutte le lingue si basino su una rappresentazione particellare dell’universo. Tutte le lingue hanno qualcosa di simile ai nomi e ai verbi, che isolano oggetti, enti, eventi, esperienze e astrazioni. In qualunque modo si esprima, la differenza suggerisce sempre delimitazioni e confini, produce conflitti e procura inutili soffferenze.

Se i nostri mezzi per descrivere il mondo scaturiscono da nozioni di differenza, allora la nostra immagine dell’universo non può che essere particellare.

Diffidare quindi della lingua e credere nella sostanziale unità dell’essere diventa un atto di fiducia.

Quando parliamo dell’universo non possiamo far altro che darne descrizioni suddivise. Ma queste suddivisioni in confini, in parti nominabili, possono essere fatte in tanti modi. Alcuni migliori, altri peggiori. A volte in buonafede a volte in mala-fede.

Chi delimita confini e marca diversità esprime una visione primitiva e parziale del mondo.

Come dice W. Blake in The Gost of Abel: “la natura non ha contorni”.

Dott. Donato Saulle

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blu psicologo milanoPsicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388blu psicologo milanoTratto da:
Bateson Gregory – Mente e natura –  Psicologia – Adelphi Editore
Bateson Gregory – Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente –  Psicologia – Adelphi Editore
Galimberti Umberto – Psicologia – Garzanti
https://it.wikipedia.org-psicologia
Modelli di psicologia – Il Mulino
Immagine: Piet Mondrian | Armonia Perfetta
Immagine di copertina: Piet Mondrian | Armonia Perfetta (modificata)blu psicologo milanoTag. Psicologia, psicologia del colore, Armonia perfetta, Mente e natura, Il test dei colori, psicologia dell’arte

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GESTIONE DELLA RABBIA

LA GESTIONE DELLA RABBIA

LA GESTIONE DELLA RABBIA

L’uomo che coltiva per tutta la vita la propria vendetta mantiene le sue ferite sempre aperte”. 

F. Bacone

Con il termine rabbia si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da elementi di provocazione capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto.

Con la rabbia si prova una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno, ma in alcuni casi anche verso se stessi.

La psicologia e le varie discipline neuroscientifiche hanno dimostrato che la rabbia nasce come reazione alla frustrazione.

Lo stesso Wilhelm Reich diceva che la rabbia è un’emozione secondaria rispetto alla frustrazione e la frustrazione, noi sappiamo, nasce dal dolore, nasce dal mancato soddisfacimento di un nostro desiderio, ovvero, nasce da una impossibilità di raggiungere il piacere. La rabbia, quindi, nasce dalla frustrazione ma maschera il dolore.

Gli stati d’animo di rabbia e vendetta, oltre che da ferite e delusioni, possono essere fatti precipitare da un conflitto narcisistico, cioè da un conflitto avente a che fare con il senso di colpa o da una esperienza di fallimento o di grave sbaglio con conseguenti sentimenti di perdita, in cui l’aggressività diretta contro il Sè viene secondariamente rivolta verso soggetti esterni.

Mentre il sentimento della rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività è totalmente e inutilmente distruttiva.

I pazienti non si liberano dalla rabbia e dalla sete di vendetta unicamente elaborando l’ostilità che è dentro di loro. Le radici della rabbia e della vendicatività saranno distrutte quando la terapia sarà riuscita a elaborare il dolore e l’angoscia da separazione situati nelle sfere più profonde, solo in quel momento il paziente potrà accostare i suoi simili in modo più flessibile e armonico.”

CONTATTACI ADESSO:  Tel. 347 7966388 – Email: info@donatosaulle.it

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Tratto da:

Bollati Boringhieri – Rabbia e vendicatività
Harold F. Searles – La psicodinamica della vendicatività
Bollati Boringhieri Charles W. Socarides – La vendicatività: il desiderio di pareggiare i conti Rabbia e vendicatività – Bollati Boringhierihttp://www.crescita-personale.it/gestire-emozioni/1775/rabbia-psicologia/1560/a775/rabbia-psicologia/1560/a

 

LA PSICOLOGIA UMANISTICA DI ROGERS

LA PSICOLOGIA UMANISTICA DI ROGERS

“In ogni organismo, uomo compreso, c’è un flusso costante teso alla realizzazione costruttiva delle sue possibilità intrinseche.
Una tendenza naturale alla crescita”. Carl Rogers 

Carl Rogers

(1902-1987), è stato un importante psicologo e psicoterapeuta statunitense.

Attraverso le proprie esperienze cliniche e terapeutiche individuò nella condotta umana una serie diversificata di motivazioni, non completamente riconducibili al paradigma psicoanalitico del conflitto di natura sessuale, inserendo quindi, in accordo con Maslow, una più ricca serie di motivazioni dei bisogni primari e fisiologici.

Quindi con la psicologia umanistica di Maslow, la psicoterapia di Rogers si colloca entro un orientamento generale alternativo tanto alla psicoanalisi quanto alle terapie comportamentali di quel periodo.

L’orizzonte di riferimento di Rogers

L’orizzonte di riferimento di Rogers è la scuola culturalista dalla quale media l’atteggiamento di protesta nei confronti della società industriale e del tipo di pensiero scientifico che essa esprimeva in quel periodo storico.

In particolare la proposta di Rogers poggia sulla convinzione della positività dello sviluppo umano.

La personalità

La personalità dunque possiede innate tendenze all’integrazione, all’attuazione di sè, alla relazione con altri.

L’unità della personalità non è strutturale ma dinamica e può essere colta solo nel divenire e nel mutamento.

Ma il mutamento è spesso impedito dalla paura del nuovo.

Perchè fin dall’infanzia l’individuo è indotto ad accettare ed assimilare i valori del suo ambiente per non perdere l’amore delle persone di riferimento.

Tali norme costituiscono un blocco rigido che lo costringono a rifiutare tutto quanto appare incompatibile con esse.

Quando, nel corso della terapia, questa struttura difensiva viene superata, il paziente diventa capace di portare alla coscienza un numero sempre crescente di esperienze significative e di includerle in un concetto allargato di sè, aperto a ulteriori apporti di esperienza e a tutte le modificazioni indotte dal fluire della vita stessa.

La disponibilità al cambiamento

Per indurre questa disponibilità al cambiamento Rogers rifiuta tutto “l’arsenale tecnico codificato” e il concetto stesso di “metodo” in psicoterapia.

Per Rogers la cura può avvenire solo nell’incontro tra due persone: il terapeuta e il paziente.

Il modello di Rogers conserva il suo valore storico che consiste nell’aver denunciato ogni tecnicismo e nell’aver spostato l’attenzione dal sintomo al rapporto interpersonale e umano”.*

Con Rogers l’uomo è quindi riportato al suo compito di datore di senso, di un progetto esistenziale che eventualmente deve essere aiutato a ricostruire ricavandolo dentro di sè.

Il terapeuta deve favorire la libera espressione della emotività del paziente sostenendolo, senza influenzarlo, nell’autonomo processo di comprensione della propria realtà psichica.

Per definire questo aiuto Rogers propone non una tecnica ma un atteggiamento, un atteggiamento interiore verso la vita, verso gli altri e, preliminarmente, verso se stessi.

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Psicologo Milano – Psicoterapeuta – Via San Vito,6 (angolo Via Torino) – MILANO– Cell. 3477966388BLUFonti:
* S. Vegetti Finzi, Storia della Psicanalisi, Autori opere teorie 1895-1990, Mondadori 1990
C.R. Rogers, Psicoterapia di consultazione (1942), trad. it. Astrolabio, Roma 1971
C.R. Rogers, La terapia centrata sul cliente (1953), trad. it. Martinelli, Milano 1970
U. Galimberti, Psicologia, Le Garzantine, Garzanti, Torino 1999
Immagine di copertina:
Edward Hopper, Second story sunlight, 1960

Carl Rogers

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LA SCRITTURA TERAPEUTICA

LA SCRITTURA TERAPEUTICA

La psicoterapia ci aiuta ad affrontare molteplici problemi, disturbi e difficoltà personali.

Nel creare, adattare e scegliere i diversi strumenti terapeutici con cui ”toccare i tasti giusti”, gli psicoterapeuti  devono essere particolarmente creativi pur nell’osservanza della teoria di riferimento.

Una delle tecniche più adoperate nella psicoterapia è la scrittura e in questo articolo si spiega perché viene impiegata come strumento terapeutico.

Esistono diversi modi di utilizzare la scrittura come strumento terapeutico, tutti basati sul mettere per iscritto i processi mentali quali pensieri, dubbi, desideri, obiettivi, piani, ma anche sentimenti ed emozioni.

Tuttavia, mettere nero su bianco tutto ciò, senza il supporto e i consigli di un professionista, può rivelarsi controproducente.

Vale a dire che per trarre dei benefici terapeutici dalla scrittura, deve essere ”orientata”, ritualizzata e basata su indicazioni ben precise.

Con quali pazienti si usa la scrittura come strumento terapeutico?

Nonostante la scrittura intesa come strumento terapeutico possa essere impiegata in diverse situazioni e per diversi motivi, è una tecnica adatta a precisi pazienti e problemi.

Anzitutto, si tratta di una tecnica consigliata solo nel trattamento di pazienti che abbiano sufficienti capacità di lettura e scrittura per affrontare al meglio il compito che viene loro assegnato.

In altre parole, questo metodo è rivolto a persone che non provino ansia nel dover scrivere e che se la sentano, in modo totalmente volontario, di portare a termine il compito senza sentirsi incapaci o inferiori.

A tal proposito, tale compito deve essere ”una scommessa sicura”.

In secondo luogo, la scrittura aiuta molto i pazienti che hanno difficoltà ad esternare verbalmente ciò che accade loro e che provano, pensano o desiderano.

Per queste persone scrivere è un modo per ”buttare fuori” tutto quello che li riguarda, senza subire pressioni né provare vergogna.

Scrivere i propri sentimenti, pensieri e desideri è uno dei modi migliori di fare ordine nella propria testa.

In questo modo, al caos subentrano idee tangibili e chiare.

La scrittura, dunque, può rivelarsi particolarmente adatta per le persone introverse.

Quando è opportuno impiegare la scrittura come strumento terapeutico?

Una volta appurato che il paziente è in grado di affrontare le attività di scrittura a fini terapeutici, bisogna adattarle al suo caso.

Le situazioni in cui si opta più spesso per un terapia basata sulla scrittura sono le seguenti:

Gestione di sentimenti negativi riguardo eventi del passato.
Ricordi traumatici.
Elaborazione di un lutto.
Accettazione di cambiamenti del proprio ruolo e del ciclo vitale.
Necessità di guardare i problemi in prospettiva.
Necessità di miglioramento dell’autostima.
Prevenzione delle ricadute (sia nel caso delle dipendenze sia nel caso di disturbi come ansia e depressione).

Oltre che nei casi sopracitati, tutti riguardanti la psicologia clinica, la scrittura può rivelarsi uno strumento terapeutico anche nei percorsi di crescita personale.

Quando si tratta di definire i propri obiettivi ed elaborare un piano d’azione per raggiungerli, la scrittura può rivelarsi la strategia migliore.

Avere davanti ai propri occhi, su carta, ciò che si vuole realizzare e pensare a come riuscirci è anche una strategia motivazionale che ci permette di concentrarci al meglio sui nostri obiettivi.

Quali sono le attività di scrittura terapeutica più comuni?

La scrittura terapeutica viene adoperata per raggiungere obiettivi ben precisi.

Tuttavia, comprende diverse attività raggruppabili in tre categorie: lettere, frasi o messaggi e diari.

La lettera è piuttosto diffusa in psicoterapia, di solito al paziente viene chiesto di scrivere una lettera a se stesso, a qualcun altro o persino a un sintomo.

Nella lettera, il paziente deve esprimere tutto quello che pensa o prova e durante la seduta psicologica potrà discuterne col terapeuta.

Altrimenti si utilizzano frasi e messaggi quasi sempre rivolti a se stessi in cui si cerca di porre l’attenzione sulle proprie qualità fondamentali per automotivarsi ed evitare di scontrarsi con i soliti ostacoli.

In questo caso al paziente viene chiesto di scrivere dei post-it e di posizionarli in un luogo visibile oppure gli viene suggerito di mettere nel proprio portafogli una frase, un biglietto che possa aiutarlo a ritrovare la carica e la motivazione nel momento del bisogno.

Infine, anche i diari vengono spesso utilizzati in terapia.

Questa attività prevede che il paziente affronti ogni giorno un argomento (che va scelto con cura).

In questo modo, il paziente può vedere con i suoi occhi l’evoluzione del suo problema, i suoi miglioramenti e i suoi cambiamenti, tuttavia, affinché il diario si riveli utile, non basta mettere su carta i propri pensieri, bensì è necessario analizzarne il contenuto con il terapeuta.

Solo in questo modo sarà possibile sfruttare al massimo le potenzialità del diario, ciò non toglie che il paziente possa provare un certo sollievo già scrivendo un diario personale.

 

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Tratto da: https://lamenteemeravigliosa.it/la-scrittura-strumento-terapeutico/

KAIROS – LE RADICI DELL’ANSIA

KAIROS – LE RADICI DELL’ANSIA

καιρός significava nell’antica Grecia  “momento giusto o opportuno”.
Gli antichi greci avevano due parole per il tempo, χρονος (Kronos) e καιρος (Kairòs).

La prima si riferisce al tempo logico e sequenziale, la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale “qualcosa” di speciale accade.

Mentre Kronos è quantitativo, Kairòs ha una natura qualitativa.

Come divinità Kairòs era semi-sconosciuto, la sola testimonianza di un culto di Kairos si riferisce ad un altare in Olimpia. In un epigramma dell’Antologia Palatina si dice che Menandro chiamò nume Kairos mentre Kronos era considerato la divinità del tempo per eccellenza.

E così, nella nostra società, abbiamo aderito solo al primo e abbiamo completamente dimenticato il secondo.

L’ansia che è tipica del nostro tempo altro non è, in definitiva, che una ribellione.

La formula più comune e più diffusa del corpo per esprimere una difficoltà di adattamento a ritmi, riti e conformismi imposti dall’esterno.

E’ una mancanza di integrazione del tempo esterno con il proprio, personale e unico tempo interno.

Mancanza che non lascia spazio al pensiero che viene considerato, al contrario, una  perdita di tempo.

Così, banalmente concentrati sulla quantità del fare e omologati nell’appiattimento dell’avere, abbiamo perso la personale specialità e quindi la qualità dell’essere.

E’ forse dunque nella scelta tra Kronos e Kairòs che possono risalire le radici dell’ansia del mondo moderno.

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                                                                           Dott. Donato Saulle

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Fonti:
Enciclopedia Treccaniblu psicologo milano

L’ANIMA DI JUNG

L’anima di Jung

“La psicologia, ancor prima che costruzione teorica è, innanzitutto testimonianza del processo psicologico che, in ogni individuo, ha i tratti dell’unicità e dell’irripetibilità”.

Scrive Jung:

“la psicologia ha lo scopo di rendere la persona più consapevole del proprio processo psichico ma in senso più profondo non è una spiegazione di tale processo perchè ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche”. La psicologia non è “nè biologia nè fisiologia nè alcun’altra scienza [ma] soltanto conoscenza della psiche o scienza dell’anima“.

Pertanto, continua Jung:

“chi vuole conoscere la psiche umana imparerà poco o nulla dalla psicologia sperimentale. Sarebbe per lui consigliabile riporre nel cassetto la scienza esatta, spogliarsi della toga del dotto, dire addio allo scrittoio e, armato di tutta la sua umanità, vagabondare per il mondo, attraverso gli orrori delle prigioni, dei manicomi e degli ospedali;

attraverso le tetre bettole di periferia, i bordelli e gli inferni del giuoco; attraverso i salotti della società elegante, la borsa, i raduni di partito, le chiese, i revivals e i riti estatici delle sette:

sperimenterebbe così sulla propria pelle l’amore e l’odio, la passione in tutte le sue forme;

tornerebbe arricchito di un sapere che i suoi fitti trattati non gli avrebbero mai dato, e sarà di miglior aiuto per i suoi pazienti, un vero conoscitore dell’anima umana.

Infatti, tra ciò che la scienza chiama “psicologia” e ciò che le persone, nella vita pratica, di ogni giorno, si attendono dalla “psicologia” si è scavato irrimediabilmente un abisso profondo”.

Consapevole dell’ineliminabile presenza del soggetto nel processo di costruzione del processo psicologico, Jung è dell’idea che ogni tentativo di descrivere la psiche conduca al riconoscimento non di una realtà oggettivamente data, ma solo di una prospettiva sulla psiche stessa.

Le acquisizioni della psicologia vengono quindi lette non come realtà assolute, ma come ipotesi, strumenti, modelli che, in quanto rappresentazioni, si danno relativamente e limitatamente a un determinato osservatore, la cui esperienza è filtrata – individualmente – dalla particolare tipologia psicologica a cui appartiene e – culturalmente – dal particolare momento del processo storico-scientifico in cui è inserito”.

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 Fonti:
– R. Bernardini. “Jung a Eranos – Il progetto della psicologia complessa”.  Franco Angeli Editore
– C.G. Jung. “Der Geist der Psychologie” (1947/1954), tr. it.: “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche”, in : Op. Vol. 8, p. 240
– C.G. Jung. “Uber die Archetipen kollektiven unbevuBten (1935/1954),  tr. it.: “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” in Op. Vol. 9i pag. 29
– C.G.Jung. “Neue bahnen der Psychologie” (1912), tr. it.: “Vie nuove della Psicologia” in Op. Vol. 7 pag. 240

Immagine: Edward Hopper – Stanza sul mare

blu psicologo milano Ringrazio Alessandra Govoni per avermi segnalato l’interessante argomento.blu psicologo milano

C.G. Jung

INGRATITUDINE – LE PERLE AI PORCI

INGRATITUDINE – LE PERLE AI PORCI

L’ingratitudine è la caratteristica di chi è ingrato.

Quindi la persona non grata ha come disposizione naturale il dimenticare e il non ricambiare, neppure con il sentimento, il beneficio ricevuto.

Di conseguenza l’ingratitudine per alcuni individui è presente anche nelle relazioni sentimentali e negli affetti o come comportamento in determinate occasioni.

MARGARITAS ANTE PORCOS

Dunque la frase latina

“Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis, et conversi dirumpant vos”

significa:

“Non date ciò che è prezioso ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”.

L’invito è quello di non sprecare le cose di valore, materiali o no, dandole a chi non è in grado di apprezzarle.

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Tratto da:
www.treccani.it
Immagine: Pieter Bruegel il Vecchio – part. blu psicologo milano

CI SONO PIU’ ORIZZONTI DI QUELLI CHE VEDI

Ci sono più orizzonti di quelli che vedi

“C’è cambiamento solo dentro una relazione

A volte, nel corso della vita, possono esserci periodi in cui sembra non sia più possibile pensare a orizzonti nuovi, contesti ambientali, relazionali o famigliari diversi da quelli che si stanno vivendo in quel momento.
Ma la vita è continuo cambiamento e spesso in queste situazioni è necessario rivolgersi a un professionista, a uno psicoterapeuta, che sappia far recuperare quel senso, quel respiro più ampio in un orizzonte sconosciuto e fino a quel momento nemmeno immaginato.

Dott. Donato Saulle

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Immagine: foto di Donato Saulle

TERAPIA DELLA GESTALT – La somma delle parti

TERAPIA DELLA GESTALT

“Il tutto è più della somma delle parti”

La parola d’origine tedesca Gestalt  tradotta in passato in modo inadeguato con il termine “forma”, corrisponde invece al significato di “struttura unitaria”, “configurazione complessiva”, termini questi più adeguati in quanto implicano anche un aspetto di organizzazione della forma percepita.

La terapia della Gestalt si inserisce tra le terapie umanistiche e nasce a New York nel 1950 circa dalle intuizioni di Friedrich Perls, psicoanalista tedesco, emigrato negli anni quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti.

La vita di Perls è stata una sintesi continuamente rinnovata e rivitalizzata da un insieme vastissimo di esperienze umane sempre nuove e sempre diverse.

La stessa cosa possiamo dire della sua terapia in quanto sarebbe molto difficile precisare quanto questo suo approccio terapeutico deve a questa o a quella filosofia a questa o a quella scuola.

Inoltre le tecniche che sono nel tempo diventate celebri e utilizzate da altre teorie, oltre che in terapia della Gestalt, come la tecnica della sedia vuota, hanno portato la terapia della Gestalt ad essere identificata a volte con approssimazione con le sue tecniche e deprivata del suo imprescindibile sistema filosofico di riferimento.

L’apparente purezza della sua pratica clinica basata sul quì e ora e sulla immediatezza, in alcuni casi sorprendente degli esiti, sembrano permettere di eluderne gli assunti teorici che si possono invece ritrovare come base per la terapia della Gestalt, nella Filosofia Esistenziale, nella Fenomenologia e nella Semantica.

Nei suoi scritti sulla terapia della Gestalt tuttavia Perls  che privilegiava uno stile e personale e creativo e che aveva una visione fondamentalmente eclettica e pluralista della terapia, pur citando le persone che hanno avuto influenza sul suo pensiero, non si è mai preoccupato di precisare che cosa esattamente aveva preso dall’uno o dall’altro.

E’ più facile quindi inquadrare la terapia della Gestalt a posteriori, inquadrandola storicamente e cominciando con il considerarla una parte importante della Psicologia Umanistica che si rifà alle concezioni di Maslow, Carl Rogers, Rollo May, ma che in realtà è diventata il polo di aggregazione di idee e di correnti che hanno, rispetto alla Psicoanalisi classica, una presa di distanza che comunque non è mai contrapposizione frontale ma piuttosto esigenza di integrazione, superamento in una concezione più vasta.

Storicamente negli anni ’50 – ’60 l’orientamento è di tipo psicodinamico: il disturbo psichico è considerato in termini biomedici anche per le innovazioni farmacologiche del momento. Contemporaneamente è riconosciuta l’inadeguatezza dei manicomi.

In questo periodo nascono nuovi modelli di riferimento; sociogenetici, comportamentali, umanistici, esistenziali e nuove psicoterapie: brevi, familiari, di gruppo, con tecniche differenti legate ai differenti disturbi.

In generale vi è una maggiore attenzione alla storia familiare, evolutiva e agli schemi adattivi messi in atto e che sono considerati fondamentali anche nella terapia della Gestalt.
Sullivan nel 1954 propone una teoria basata sulla nozione di campo relazionale secondo la quale la personalità individuale è un prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come personificazioni interiori anche in situazioni di isolamento. In quest’ottica la terapia è demedicalizata, il rapporto medico-paziente non è più concepito secondo lo schema sano-malato ma come un tentativo di reciproca comprensione nel quale il terapeuta sviluppa un maggiore atteggiamento empatico e riconosce l’importanza delle determinanti ambientali e sociali.

L’elemento innovativo introdotto da Perls nella terapia della Gestalt fu di estrapolare i principi delle leggi di percezione applicandoli ad una dimensione esistenziale ed evolutiva dell’individuo e quindi alla possibilità di utilizzarli in psicoterapia.
Alcuni ricercatori della psicologia della percezione infatti come Koler e Wertheimer sostennero che c’è prima di tutto una formazione complessiva – che essi chiamano Gestalt (formazione della figura) – e che tutti gli altri pezzi isolati sono formazioni secondarie e formulano la teoria della Gestalt in questo modo:
“ci sono degli insiemi il cui comportamento non è determinato da quello dei loro singoli elementi ma dove i processi delle parti sono determinati dalla intrinseca natura del loro insieme. Questo è il significato della celebre frase il tutto è più della somma delle parti. Lo scopo della teoria della Gestalt è di determinare la natura di questi insiemi.”
La psicologia della Gestalt (vedi: “La psicologia della percezione“) identificava un processo percettivo unitario grazie al quale i singoli stimoli sarebbero integrati nel soggetto in una forma dotata di continuità.

Ciò che prima era stato considerato un processo passivo, il percepire, veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo e cioè come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali.Scrive E. Pessa: “i gestaltisti concepiscono il processo di soluzione di un problema alla stregua di un processo percettivo governato, per l’appunto, da leggi gestaltiche, leggi che fanno sì che si tenda a percepire una buona forma. Anche la situazione problematica, individuata da elementi e rapporti tra questi elementi, è una forma, che però è percepita come cattiva, mancante, incompleta: è proprio questo che fa sì che la situazione costituisca un problema in quanto tale. Le leggi della buona forma impongono, però, una ristrutturazione, nel senso del ristabilimento di una struttura completa, chiusa, ottimale, che costituisce di per sé la soluzione stessa del problema. L’atto di ristrutturazione costituisce il celebre insight, già introdotto da Kohler. Si tratta di una concezione dell’apprendimento molto qualitativa e difficile da verificare sperimentalmente. Tuttavia ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il ruolo dei fattori di tipo globale nei processi di apprendimento. In altri termini, essa asserisce che, accanto alle singole associazioni tra stimoli e risposte e sovraordinato rispetto a queste, esiste un campo, esattamente analogo ai campi di forze di cui parla la fisica, che determina globalmente la dinamica del processo di apprendimento e le storie delle varie connessioni stimolo-risposta. L’evoluzione di questo campo è governata da leggi che tendono al mantenimento di un opportuno equilibrio globale e, nel caso in cui esso sia turbato, fanno insorgere delle forze che provvedono al suo ristabilimento”
L’indagine psicologica è quindi essenzialmente diretta a rintracciare le leggi di questa strutturazione e che sono poi le leggi che regolano il nostro contatto con il mondo. Un altro aspetto fondamentale della psicologia della Gestalt, poi ripreso dalla terapia della Gestalt, è quello dell’organizzazione del campo percettivo in figura e sfondo, che fu introdotta da Edgar Rubin  e che mise in risalto come la figura emergente è generalmente contraddistinta da contorni definiti che rappresentano il focus dell’attenzione ed è caricata di una maggiore energia di relazione con l’osservatore. Lo sfondo, al contrario, rappresenta il resto del campo visivo ed è caratterizzato da attributi inversi a quelli menzionati per la figura emergente. E’ interessante notare come allo stesso Rubin non sfugga l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato. Di qui la tendenza,non casuale, a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione.
K. Lewin attuò inoltre un importante esperimento di memoria che sarà poi ripreso come fondamento per l’impianto teorico della terapia della Gestalt e che darà origine ad alcune tecniche per risolvere quelli che sono definiti “unfinished business” e cioè i “compiti non conclusi”.
Scrive Perls: “in un esperimento Lewin diede ad un certo numero di persone dei problemi da risolvere. Non era stato loro detto che era un test di memoria, ma avevano l’impressione che fosse eseguito un test di intelligenza. Il giorno dopo fu loro chiesto di scrivere i problemi che ricordavano ed erano proprio i problemi non risolti ad essere ricordati di più di quelli che erano stati risolti”.

E’ come se i compiti non conclusi e i problemi non risolti creino una sorta di interferenza e di frustrazione e fino a quando il compito o il blocco non è stato superato, concluso o risolto la mente non si libera del pensiero e i comportamenti si ripetono nel tentativo di superare il blocco o di risolverlo, a volte la persona non si rende conto in modo cosciente di questo blocco ed è per questo che a volte è utile l’incontro con un terapeuta.

La parola “soluzione”, nel linguaggio della terapia della Gestalt, indica la scomparsa e la dissolvenza di una situazione confusa.

Quindi una situazione non conclusa polarizza una carica di energia destinata a completarla rendendo la stessa energia non più disponibile per altri tipi di esperienza. Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della situazione stessa anche in luoghi e tempi successivi interferendo quindi con la possibilità dell’individuo di entrare efficacemente in contatto con i contesti cognitivi, emotivi e sociali in cui di volta in volta verrà a trovarsi.
Nella terapia della Gestalt di Perls questo concetto si dilata per definire una relazione dinamica tra un soggetto e un oggetto o un’altra persona, una cosa, un sentimento. La relazione è determinata da un bisogno del soggetto e mira alla soddisfazione di questo bisogno. Una volta soddisfatto il bisogno la relazione cessa e si dice che la Gestalt è terminata. Anche nel campo dei sentimenti e delle emozioni personali si può riscontrare questa stessa modalità. Il bisogno in primo piano, sia esso quello della sopravvivenza o semplicemente un qualsiasi bisogno fisiologico o psicologico è comunque quello che preme con maggiore urgenza per il proprio appagamento.
Perls, appropriandosi in termini operativi dei concetti esposti sopra insiste soprattutto sul fenomeno della Gestalt non terminata come spiegazione del disagio psichico e sul concetto di integrazione come vera e radicale modalità terapeutica.

Scrive P. Baumgardner: “la terapia della Gestalt è un modo di occuparsi di un altro essere umano per dagli la possibilità di essere sè stesso, saldamente ancorato nel potere che lo costituisce, la terapia della Gestalt è una terapia esistenziale e si occupa quindi dei problemi creati dalla nostra paura di assumerci le responsabilità di ciò che siamo e di ciò che facciamo. E’ stato infatti sviluppato un procedimento terapeutico che, nella teoria della terapia della Gestalt e nella sua pratica, evita l’uso dei concetti. Egli distingue il procedimento terapeutico da quello del parlare intorno a qualcosa e delle problematiche morali lasciandoci lavorare con i dati, con i comportamenti osservabili che costituiscono il fenomeno invece che con ipotesi razionali. Queste differenziazioni sono di primaria importanza nella terapia della Gestalt, che si occupa quindi e si serve di ciò di cui abbiamo esperienza piuttosto che di ciò che è frutto del nostro pensiero. Il terapeuta della Gestalt deve perciò creare una situazione particolare: deve diventare il catalizzatore che facilita la presa di coscienza da parte del paziente riguardo a ciò che c’è nel presente, frustrandone i vari tentativi di fuga. Questa necessaria frustrazione, se non sapientemente dosata, può risultare, per alcuni tipi psicologici, particolarmente fastidiosa e può esitare in drop-out terapeutici.

Pears introduce, come abbiamo visto, come base del suo lavoro teorico la parola Gestalt e ne considera due tipi: la Gestalt completa o intera e la Gestalt in formazione. Parlando così della Gestalt come dell’unità finale di esperienza, esperienza riguardante prevalentemente la consapevolezza. A questo proposito le nozioni basilari che utilizzeremo sono quelle di bisogno e di situazione incompiuta e delle interrelazioni tra le due. Se le esigenze dell’organismo sono soddisfatte, attraverso il dare e ricevere dall’ambiente, la Gestalt è completa e la situazione compiuta. La consapevolezza del bisogno diminuisce, scompare ed emergono altri bisogni. L’organismo è pronto ad affrontare un’altra situazione incompiuta con le energie connesse alle nuove esigenze emergenti.

Lo scopo della terapia della Gestalt è quello di recuperare le parti perdute della personalità. Le nostre esperienze e le nostre funzioni rifiutate possono essere recuperate. Questo procedimento di riprendere, reintegrare e sperimentare di nuovo è il campo della psicoterapia. Il terapeuta viene coinvolto, insieme al paziente, nel processo di riappropriazione di tali sensazioni e comportamenti abbandonati  fino a che il paziente comincia, continuando poi per proprio conto, ad affermare sè stesso e ad agire nei termini della persona che vuole essere realmente.

Dott. Donato Saulle

dipendenze Psicologo Milano

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Immagine: Rob Gonsalves- Sun Sets Sailblu psicologo milano

TERAPIA DELLA GESTALT

Fritz Perlsblu psicologo milanoTag: terapia della Gestalt

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psicoanalisi e omosessualità

PSICOANALISI E OMOSESSUALITA’

PSICOANALISI E OMOSESSUALITA’

L’omosessualità in psicoanalisi ha sempre rappresentato un tema scottante, gli psicoanalisti si sono divisi, fin dai tempi di Freud, tra quanti lo vedevano come uno stato patologico e quanti lo consideravano, semplicemente e giustamente, come una della tante possibilità di espressione della sessualità umana.

“Essere omosessuali” è il primo libro che descrive da una prospettiva non patologica lo sviluppo psichico omosessuale.

Privilegiando l’indagine sull’omosessualità maschile, e rileggendo in chiave critica non tanto l’opera di Sigmund Freud quanto alcune delle sue derivazioni nell’ambito della psicoanalisi americana, Richard Isay affianca le proprie riflessioni teoriche al racconto di casi clinici ricavati da un’esperienza più che ventennale di psicoterapie con uomini omosessuali.

Isay giunge alla conclusione che la persona omosessuale ha un’identità psichica integrata, matura e suscettibile alla patologia né più né meno di quella eteresessuale, e che ogni tentativo di modificare l’orientamento sessuale ha conseguenze dolorose e dannose per l’individuo e per la società.

Infine in modo semplice ma incisivo, Isay affronta varie tematiche:
i fattori costituzionali dell’omosessualità;
gli aspetti comuni e quelli specifici dello sviluppo psichico omosessuale ed eterosessuale;
i passaggi attraverso cui si struttura l’identità omosessuale;
il ruolo della figura paterna;
le relazioni d’amore omosessuali;
il lavoro psicoterapeutico con pazienti omosessuali.

Il respiro degli argomenti trattati e l’immediatezza della lettura fanno di “Essere omosessuali” un libro rivolto a un pubblico ben più vasto di quello degli “addetti ai lavori”.

Richard A. Isay

psicoterapeuta, psicoanalista e psichiatra vive e lavora a New York.
È professore di clinica e psichiatria al Cornell Medical College ed è autore di numerosi saggi scientificiblu psicologo milano

Dott. Donato Saulle

Panico Psicologo Milano

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Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 3477966388depressione psicologo milano

Fonti:
Essere omosessuali. Omosessualità maschile e sviluppo psichico – Richard A. Isay
Immagine: I colori del futurismo (modificato)

   

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Il presente post ha il solo scopo di divugare il libro senza scopo di lucro.

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