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TUTTO SULL’ANSIA

TUTTO SULL’ANSIA

Cosa è “ansia”? 

Ansia:

lat. anxia femminile di anxius che significa affannoso, inquieto, e a sua volta derivato da ango, passato di anxi che significa stringere, soffocare, e a cui derivano anche angustia e angoscia.

La differenza tra ansia e angoscia è presente solo nelle lingue latine, mentre per la lingua tedesca (Angst) ed inglese (anxiety) sono indistinte. Inoltre solitamente è nell’ambito della psicoanalisi che si usa angoscia, mentre nella psicologia di ispirazione fisiologica e comportamentale è usato il termine ansia.

L’ansia si caratterizza come una condizione di tensione che si manifesta con timore, apprensione, attesa inquieta e, spesso con una serie di correlati fisiologici come tremori, sudorazione, palpitazioni, senso di affaticamento, difficoltà a respirare normalmente.

L’ansia è caratterizzata da:

una attivazione eccitatoria di tipo “tensivo” e “apprensivo” con correlati fisiologici evocanti il senso di sopraffazione, come l’accelerazione dei battiti cardiaci e palpitazioni, aumento di pressione, respirazione veloce, talvolta sino al senso di soffocamento, tensione muscolare e rigidità, o all’opposto astenia, iperproduzione gastrica, iperidrosi (sudorazione eccessiva);
vissuti di paura, timore, inquietudine, insicurezza;
produzione di pensieri invasivi, con l’esperienza del non-controllo e disintegrazione. 

La psicologia “comportamentale”

utilizza per l’ansia un punto di vista descrittivo e la definisce in termini operativi e nei correlati fisiologici, tentando di operare misurazioni o di indagare le aree cerebrali interessate e gli schemi di attivazione.

La psicoanalisi

analizza l’ansia in una prospettiva comprensiva ed esplicativa, e è usualmente definita con il termine “angoscia”. Leonardo Ancona ci ha offerto una prosposta di differenziazione tra angoscia e ansia: l’angoscia si appropria a un processo psichico sostanzialmente diverso da quello dell’ansia.

Infatti l’angoscia corrisponde alla situazione di trauma, cioè ad un afflusso di eccitazioni non controllabili perché troppo grandi nell’unità di tempo; l’ansia corrisponde ad un processo di adattamento di fronte alla minaccia di un pericolo realistico; questo processo è una funzione dell’Io che se ne serve come di un segnale, dopo averla prodotta, per evitare di venire sommerso dall’afflusso traumatico delle eccitazioni. In questo caso l’Io è soggetto attivo in quanto produce l’affetto e se ne serve per trovare adeguati dispositivi di difesa, la carica pulsionale viene strutturalizzata e riprodotta senza base economica, cioè senza attuazione di scarica”.

Nella visione freudiana l’angoscia:

Visione economica: corrisponderebbe ad una eccitazione eccessiva in assenza di un rappresentante che ne permetterebbe un destino trasformativo;

Visione strutturale: sarebbe un affetto dell’Io, ossia un segnale con caratteristiche di “vissuto”.

La funzione dell’Io freudiano starebbe nel proteggere la coscienza dagli impulsi dell’Es, minacciosi per la coscienza (magari in contrasto con altre esigenze psichiche), attraverso la rimozione.

La rimozione

sarebbe, in sostanza, un processo di scomposizione tra il rappresentante (ideativo del desiderio o impulso inconscio) e il suo affetto, originariamente legata all’esperienza di una situazione traumatica di perdita: il rappresentante viene rimosso, mente l’affetto viene spostato e trasformato in angoscia segnale: in questi termini l’angoscia sarebbe il segnale di un pericolo “interno”. Esisterebbe una rimozione originaria per cui alla rappresentanza psichica ideativa di una pulsione viene interdetto l’accesso alla coscienza. Questa rimozione originaria fungerebbe da attivatore della funzione rimovente e da attrazione per gli elementi rimossi: questo stadio successivo della rimozione è “la rimozione propriamente detta, che colpisce i derivati della rappresentanza rimossa, oppure quei processi di pensiero che pur avendo una qualsiasi altra origine sono incorsi in una relazione associativa con la rappresentanza rimossa.

In forza di tale relazione queste rappresentazioni incorrono nello stesso destino di ciò che è stato originariamente rimosso. La rimozione propriamente detta è perciò una post-rimozi0ne. E’ inoltre erroneo dar rilievo soltanto alla ripulsa che viene esercitata dalla coscienza su quanto ha da esser rimosso. Entra pur sempre in gioco anche l’attrazione che il rimosso originario esercita su tutto ciò con cui può collegarsi. E probabilmente la coscienza rimuovente non raggiungerebbe il suo scopo se queste due forze non agissero congiuntamente, cioè se non vi fosse un rimosso anteriore, pronto ad accogliere quanto la coscienza allontana da sé” (Freud, “la rimozione”, 1915).

Il versante neurobiologico e cognitivo-comportamentale

definisce l’ansia come processo che in termini quantitativi può essere normale o patologico. Riconoscendo una funzione all’ansia, rispetto alle prestazioni, secondo il meccanismo attacco-fuga: l’ansia normale: sarebbe quindi uno stato preparatorio che, attraverso l’attivazione tensiva posta da uno stato di allarme, andrebbe a potenziare le capacità operativa e quindi avvantaggiando alla riuscita; l’ansia patologica: sarebbe una attivazione sproporzionata rispetto alla situazione che va affrontata, e che invece di avvantaggiare alla riuscita, la invalida e comportando accumuli di distress.

In questa ottica l’ansia, se patologica, va contrastata diminuendo l’attivazione tensiva.  “A livello superficiale, una delle cause principali del disturbo è l’interpretazione errata dei sintomi dell’ansia. I sintomi vengono cioè avvertiti come pericolosi, come perdita di controllo e sopraffazione. In poche parole si arriva ad avere “paura della paura” e così l’ansia genera ulteriore ansia, dando il via a una spirale che, in modo estremamente veloce, porta il soggetto a stare male, all’incapacità, all’attacco di panico. Una sensazione inconsueta, ad esempio un formicolio, un leggero giramento di testa (tutti, ogni giorno, hanno questo tipo di sensazioni corporee, assolutamente normali) può generare il timore di avere un malore”.

Una terza lettura 

possibile dell’ansia esce dal criterio individualista dei precedenti, e prende in considerazione visioni psicosociali, anzi precisamente dei legami sociali. Esisterebbe in tal senso un matrice relazionale e sociogenica dell’ansia. La nostra società è confrontata con cambiamenti: a cui corrispondono profondi elementi di perdita e di un ordine non definito. Diversi sociologi hanno mostrato come la perdita del contratto intersoggettivo ed intergenerazionale, cioè quell’accordo che ci permetteva di poterci costruire saldamente attraverso un investimento collettivo e gruppale, abbia portato in crisi la base narcisistica del nostro essere. E’ essenzialmente, quindi, una crisi di legami: legami affettivi, culturali, sociali, economici…

Esiste inoltre l’esperienza sostanziale dell’inconsistenza della volontà sui processi sociali: gli eventi sociali sono anonimi, accadono senza un responsabile, come ondate di energia prive di un contenitore chiaramente riconoscibile. Esiste sempre più netta la distanza tra la community, un ipercontenitore che domina e neutralizza la soggettività (la aliena), e l’individuo che reagisce, egoista, vorace, amorale, un contenitore grandioso in cui si sperimenta un profondo senso di vuoto e solitudine. L’uomo contemporaneo è slegato dunque, vacante, alla deriva, in un mondo di processi anonimi, ininfluenzabili. Kaes sostiene che esista un angoscia connaturata nel nostro tempo, che investe la soggettività, o meglio l’intersoggettività.

Con intersoggettività si fa riferimento alla capacità di mentalità plurale del soggetto: identificare la propria soggettività attraverso la possibilità di operare con la mente una oscillazione, o una compresenza, tra l’identificazione dell’altro e l’identificazione di se stesso.

L’intersoggettività è quindi caratteristica dell’identità.

La mancata acquisizione dell’intersoggettività o la sua destrutturazione porterebbe ad uno smarrimento dei confini e verso una fusionalità smembrante del soggetto inghiottito dal tutto, un non sapere chi si è, che di per sé richiama attivamente il prototipo di tutte le angosce: l’angoscia di disintegrazione. Sarebbe l’esperienza di essere ininfluente, inconsistente, trasparente, di riflettere solo luci altrui, essere come di fronte ad una madre sconfinata e ultrapotente nella impossibilità di essere qualcosa d’altro, di autentico, dalle alienanti attribuzioni di lei: una relazione che non consente di scambiare costruttivamente emozioni, pensieri, stati mentali, perché manca l’esperienza di riconoscimento dei confini.

Per Kaes (come puntualmente esposto in un Seminario SPI del 2013), alcuni fattori starebbero alla base di questo malessere contemporaneo: Anomia, disordine e afinalizzazione. In contrapposizione reattiva, la cultura del controllo, del potere dell’ordine. In ogni caso, controllo coercitivo e caos non permettono i necessari movimenti di simbolizzazione che permettono l’esperienza dell’intersoggettività. L’esperienza dell’illimitato: corrispondente al tentativo di grandiosità dell’individuo per staccarsi, corrispondente al rifiuto della castrazione e del trionfo del godimento. Senza il limite, tuttavia, non c’è possibilità di contatto, quindi di una esperienza autentica di sé e dell’altro; Il tempo s’è ridotto, e l’immediato prevale sul progettuale, e ciò significa che non si tollera il rimando, perché non ha un luogo, perché il rimando è il non avere.

Quindi l’avere è qui, è ora, è intenso, “è consumabile in modo illimitato finché c’è”.

Il legame è con oggetti che ci sono, che si prestano ora: non è con ciò che non è presente, con la storia, con il futuro, con ciò che è lontano, con ciò che è importante, anche se assente. Questo comporta la cultura dell’emergenza, dell’assenza di una mentalizzazione articolata (legami!) delle esperienze, dove tutto avviene di improvviso, nel bene e nel male; cultura della malinconia: l’intensità, l’illimitato, il trattenimento e il controllo, l’esperienza fissata sul qui e ora, tutto questo espone a sperimentare la continua perdita, un lutto costante, la sensazione di non arrivare mai a niente. A questo si anellano ulteriori reazioni persecutorie e maniacali, e così via, in una spirale sempre più intensa;

La perdita dei riferimenti e i legami che non tengono (assenza dei garanti metasociali e metapsichici): “i sogni non riparano più i microtraumi della vita quotidiana e le fictions non fanno che addormentarli. […] E’ l’incertezza sul presente, la diffidenza nei confronti delle trasmissioni che non generano avvenire o al contrario l’esaltazione ottusa dei fondamentalismi, l’estrema e fragile dipendenza dagli oggetti tecnici, dalle urgenze, dai legami effimeri, etc. ciascuno può compilarne la lista”. I contratti si stracciano, così come i legami, la tradizione e la cultura scompaiono, così come si fa trasparente l’identità. L’esperienza sociale è fuori dall’inquadramento di setting, e quindi difficile regolarla, essere agente.  L’individuo trasparente e passivo è alternato da un superman grandioso, perduto e confuso all’interno del suo personaggio individuale.

 “…penso che sia possibile caratterizzare il malessere contemporaneo con la difficoltà di costruire questo luogo dove mettere ciò che troviamo” (Kaes, sempre dal seminario SPI 2013).

Come si tratta allora l’ansia? 

Queste impostazioni hanno un presupposto di divergenza, appunto “evitare” o “conoscere”: La prima presuppone un’ansia-patologica, sulla quale bisogna intervenire per poterla controllare, abbassandone l’intensità: la terapia ha una finalità espulsiva e di eliminazione del problema. Tendenzialmente abbiamo tutti esperienza di misure difensive dall’angoscia e strategie di evitamento di situazioni pericolose. Si tratterebbe quindi di fare “come-se”. Una delle parole chiavi in quest’ottica è “gestione–dell’ansia”, e possono fare al caso: i farmaci (benzodiazepine), le strategie cognitive (cognitivo-comportamentale, ecc), un insieme di “misure difensive di sicurezza”, le tecniche “corporee”, meditazione e rilassamento, ecc.

Nella seconda l’ansia funge perlopiù da sintomo-segnale di un conflitto inconscio. L’ansia allora non sarebbe un problema in sé, ma l’allarme per qualcosa che vorrebbe accadere, ma che attualmente non ci si consente che accada. I conflitti dominanti sono legati a vissuti invasivi, che rimandano a temi di indipendenza-separazione, con elevate componenti di frustrazione e rabbia inesprimibile. Sarebbe dunque il bisogno di controllo a far emergere questi conflitti con una pressione emergente della verità psichica. Il lavoro consisterebbe quindi nel cogliere il senso di qualcosa che vuole divenire e che preme dolorosamente, impedito dal controllo, creando scenari di pericolo , di presenza di elementi alieni e di una temuta perdita di tenuta.

L’obiettivo in questo lavoro non sarebbe allora di eliminare l’ansia, ma di riuscire a coglierne il messaggio affettivo sottostante. Sarebbe proprio nella possibilità di tollerare l’ansia senza doverla eliminare il segno di un processo di sviluppo dell’Io. Non sarebbe quindi la presenza o meno di ansia, l’indicatore del progresso, ma la capacità del soggetto di utilizzare l’ansia, in termini adattivi per affrontare e gestire i problemi .

Con Bion, si tratterebbe di trasformare e rendere “pensabili” le angosce, affrontando un percorso di contatto della verità. L’angoscia, in un’ottica psicodinamica, avrebbe una tipicità espressiva in relazione ai livelli evolutivi del conflitto da cui origina:

angoscia di disintegrazione: legata a fantasie perdita di integrità e fusionalità disperdente con l’oggetto. Rappresentano gli scenari dell’istinto di morte che opera all’interno della personalità; angoscia persecutoria: frutto dell’animazione oggettuali di proiezioni di parti cattive e aggressive, vendicative e attentatrici; angoscia da separazione: paura di perdere l’oggetto d’amore, con scenari abbandonici, di vuoto e solitudine; angoscia da mancanza d’amore: paura non che l’oggetto scompaia, ma che non sia più nutriente e disponibile; angoscia di castrazione: legata a scenari edipici e a fantasie di lesioni corporali e di mutilazioni; angoscia superegoica: fondate sul senso di colpa e di inadeguatezza rispetto a standard o aspettative, quindi angosce di fallimento e di “incapacità di riuscita”.

L’organizzazione gerarchica delle varianti dell’ansia può portare all’errata conclusione che i livelli di ansia più primitivi vengano superati con il procedere dello sviluppo. Di fatto tali livelli persistono, e possono essere riattivati con facilità in situazioni traumatiche o di stress o in gruppi numerosi” (Gabbard, 2007). Nella terza ipotesi sarebbe l’esperienza della intersoggettività a restituire una possibile terza via e quindi di ricomposizione dei legami di scambio, tra: il bisogno di prendere e nutrirsi in modo illimitato, identificandosi col tutto, per avvicinare una esperienza di completezza, a quel luogo sociale così distante, superiore e indecifrabile, in cui è difficile essere soggetto; e la difesa paranoide, controllante, espulsiva dell’incertezza e intenta a proiettare la propria angoscia data dalla frammentazione dell’esperienza di sé.

L’ansia in questo terza prospettiva non dovrebbe ricercarsi nel “solo” conflitto intrapsichico, né trattata come patologia in sé (levare l’ansia…), ma potrebbe leggersi come un segnale di sofferenza dell’identità: sarebbe allora possibile riavviare un processo di definizione di sè solamente attraverso l’esperienza di legami, legami fondati sulla ricerca del riconoscimento plurale delle diverse verità che sottendono le soggettività, le differenze e le realizzazioni che ne derivano.

“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”

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Fonte: Dott. Simone Montagnoli
Immagine: “Guernica”, Picasso (part.)

IL DESIDERIO DELL’ALTRO – Nel linguaggio di Lacan

“Il linguaggio,
prima si significare qualcosa,
signfica per qualcuno.
J. Lacan

Jaques Lacan

noto pensatore francese, è stato psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista e soprattutto filosofo.

La psicoterapia, sostiene Lacan, non può dire tutto di tutto ma è una esperienza di parola. L’oggetto quindi non è più l’inconscio ma le produzioni discorsive all’interno di una situazione comunicativa estremamente delimitata.

“L’inconscio è strutturato come un linguaggio” è la parola d’ordine con la quale Lacan inaugura il suo pensiero. L’essere umano è quindi determinato dal linguaggio (è un animale in preda al linguaggio) o, in altri termini, è determinato dall’inconscio, che non ha più una dimensione individuale ma, come il linguaggio, è transindividuale, impersonale. Per indicare la collocazione comune all’inconscio e al linguaggio, Lacan inserisce il termine Altro, non inteso come uomo ma come luogo; “luogo di dispiegamento della parola”, altro da sè. L’esteriorità del simbolico rispetto all’essere umano è la nozione stessa di inconscio ed il senso del decentramento operato da Lacan.

Per essere riconosciuto nell’ambito della sua comunità come soggetto, la persona deve sottomettersi alla legge sociale veicolata dal simbolismo linguistico, dal nome di parentela. Questo è il percorso che interessa Lacan: l’evoluzione dall’animale biologico all’umanizzazione del soggetto umano.

Il dramma della follia si situa per Lacan, nella relazione del soggetto con il significante, è l’effetto finale della mancanza di simbolizzazione. Come tale la follia è una virtualità permanente per ogni essere umano. Nulla infatti garantisce l’armonia dell’individuo con l’Altro che lo fa tale, se non il costante processo di soggettivazione. Ricostruendo, attraverso la psicoterapia, la sua storia al di fuori delle lusinghe narcisistiche dell’autobiografia, il soggetto riordina le contingenze passate attribuendo loro il senso di necessità future. Connettendo passato e futuro la storia si fa progetto senza scadere nel delirio onnipotente. Il tempo del soggetto è dunque il futuro anteriore, quel “sarà stato” che scandisce la terapia. Solo attraverso l’esaustione di tutte le impossibilità il soggetto accede a quei pochi gradi di libertà con i quali può esercitare il suo residuo potere. Ma il soggetto non è mai tale senza il riconoscimento dell’Altro, al quale pertanto sospende la sua stessa esistenza in un gioco incrociato di domande dove, al tempo stesso, si realizza e si smarrisce.

Quando un bambino lancia un grido o piange esprime un malessere indistinto, una situazione confusa di disagio. Spetta all’Altro significativo e significante fornire una risposta. Il soggetto riceve il senso della sua domanda dalla risposta che gli perviene. Così facendo, smarrisce il bisogno e si aliena nella sfilata delle domande che chiedono solo di non essere fraintese. Il peggior pericolo è che venga interpretata la richiesta come richiesta di cose. Ciò che l’essere umano desidera, al di là delle infinite domande, è di essere riconosciuto come soggetto di un desiderio “sano”.

Dunque  “l’essere umano non si costituisce come una sostanza autofondata o attraverso una facoltà di sintesi, ma dipende nel suo essere dal riconoscimento dell’Altro, dal “desiderio dell’Altro”. Non c’è una identità soggettiva che si costituisce per maturazione, per sviluppo psico-biologico di una potenzialità programmata esistente a priori. Il soggetto non è un seme che contiene già in sé la sua evoluzione; è piuttosto costituito, attraversato dall’Altro, innanzitutto dal desiderio dell’Altro: ed esso sarà, e diventerà, come l’esperienza clinica ci insegna, ciò che è stato per il desiderio dell’Altro.”

Secondo Lacan sul piano simbolico, che è il luogo dove si attua il legame tra la coazione a ripetere, la memoria e l’accesso al linguaggio, si svolgerebbe una continua dialettica tra bisogno e desiderio che, ripetendo in modo allucinatorio l’esperienza passata, ritrova l’oggetto perduto sul piano fantasmatico e cerca una realizzazione. La dinamica del desiderio è guidata dalla “logica della mancanza”, che si manifesta sia in modo negativo sul “registro” reale, come compromesso, nel sintomo, sia in modo positivo sul “registro” dell’immaginario onirico.

Ma l’essere umano, osserva Lacan, non è retto solo dal desiderio di sapere ma anche da quello, insopprimibile, di ignorare. Perchè la verità è segreto, desiderio, pausa, interruzione, silenzio, ed è nel vuoto della parola che si lascia respirare il pensiero che tuttavia non può emergere che nel luogo del continuo confronto con chi sa ascoltare.

Pertanto la verità non si può cercare nè svelare per intero. Se si dà è solo nella forma del compromesso, del dire a metà. Se il terapeuta non è consapevole di questa manovra, chiude, con la sua presenza, l’accesso alla verità del soggetto. Compito del terapeuta è dunque, per Lacan, quello di non saturare la domanda ma di riconsegnarla ogni volta al soggetto che troverà la propria risposta. La domanda, che non riceve risposta, rimette il sapere al suo posto, nel luogo dell’Altro. Solo da questa dimensione si può formulare la questione della verità sottesa alla propria domanda ed espressa dal sintomo.

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Tratto da:
S.V. Finzi, Storia della psicoanalisi – Mondadori
Enciclopedia Treccani
Prof. Massimo Recalcati

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Tags: Lacan, desiderio, linguaggio, inconscio

UN COLLOQUIO DI PSICOTERAPIA

UN COLLOQUIO DI PSICOTERAPIAblu psicologo milano

Chiedere, anche con un solo colloquio, il parere di uno psicoterapeuta, significa avere la totale riservatezza garantita dal segreto professionale e l’opinione di un professionista per tutti quei problemi che non si riescono a risolvere da soli.

“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”

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Attualmente il primo colloquio ha una durata e un costo uguale ad ogni altro colloquio anche se, in alcuni casi, il primo colloquio può essere molto più impegnativo  per il professionista e trasformativo per il paziente. La durata è di 50 minuti e le informazioni sul costo possono essere ottenute chiamando il numero 3477966388

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E’ possibile fissare un primo colloquio utilizzando una delle seguenti modalità:

– inviare una mail all’indirizzo: info@donatosaulle.it
– inviare un SMS al numero: 3477966388
– telefonare direttamente al numero: 3477966388

in tutti i casi verrà richiesto di specificare:

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Lo studio effettua solo colloqui di psicologia o di psicoterapia con pazienti maggiorenni.

Verrà sempre dato riscontro alla richiesta.

Se non si riceve un riscontro alla propria richiesta durante le 24/48 ore successive si prega di cambiare la modalità del contatto perchè questo significa che la richiesta non è stata ricevuta.

Avere riscontro alla propria richiesta entro 24/48 ore significa poter effettuare un primo colloquio nei tempi più brevi possibili anche se non sempre immediati.

Al termine del primo colloquio il professionista e il paziente concordano l’eventuale prosecuzione del trattamento.

Il professionista potrà farsi carico personalmente dell’intervento o indicare al paziente il nominativo di un altro professionista, sulla base delle specifiche problematiche individuate, oppure indicare professionisti con competenze diverse che possono affiancare il percorso terapeutico intrapreso.

La durata del primo colloquio è di 50 minuti.

Primo colloquio

Durante il primo colloquio si tratterà di presentarsi, verificare e ri-conoscere chi è l’altro che abbiamo di fronte, di comprendere il suo modo di entrare in relazione, le sue dinamiche, la modalità con cui poter lavorare insieme.

Compito del terapeuta sarà quello di aiutare la persona a circoscrivere le aree problematiche che l’hanno portata a chiedere aiuto, fornirle la forza per iniziare questo nuovo percorso e cominciare a trasmetterle un’idea iniziale di intervento sul problema.

Dall’altra parte, l’utente potrà usufruire di questo incontro per accertarsi che il professionista gli trasmetta un senso di accoglienza, preparazione e fiducia, componenti basilari per la costruzione di un buon rapporto terapeutico e quindi di una buona terapia.

Ogni psicologo elabora un modello di interazione adatto a sé e alla persona che ha di fronte, modello che tuttavia varia al variare dello stile comunicativo dei partecipanti, influenzato inevitabilmente dalla comunicazione bilaterale e dall’imprescindibile risultato scaturito dalle due personalità che si incontrano

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Quanto dura una psicoterapia

La durata di una psicoterapia è molto variabile e dipende da numerosi fattori:

da quanto tempo la persona ha sopportato da sola il problema, la complessità del problema, la condizione emotiva del paziente al momento della richiesta e le sue possibilità economiche.

Spesso si pensa che i problemi di tipo psicologico necessitino di un intervento lungo e costoso.

Con un percorso di psicoterapia integrata a volte il problema si sblocca in poche sedute permettendo alla persona di recuperare la fiducia nelle proprie capacità personali.

Inoltre nessun paziente viene sequestrato dal suo terapeuta; bensì decide sempre in maniera autonoma e certo, se vuole, insieme al terapeuta, di poter scegliere il momento più adatto in cui sospendere o interrompere il suo percorso.

Chiaramente più sono complessi gli obiettivi e le situazioni che la persona si prefigge di raggiungere, di superare o comprendere e più probabilmente sarà necessario impegnare del tempo per raggiungerli.

A volte però è necessario essere supportati soltanto per un breve tratto del proprio percorso di vita.

Nel mio caso comunque la scelta di rinnovare ogni volta l’incontro terapeutico è sempre del paziente che scieglie, in totale libertà, di valutare e decidere se proseguire o interrompere il percorso psicologico o psicoterapeutico proposto anche senza dare formale comunicazione allo psicoterapeuta.

Chiedere, anche con un solo colloquio, il parere di uno psicoterapeuta, significa avere la totale riservatezza garantita dal segreto professionale e l’opinione di un professionista per tutti quei problemi che non si riescono a risolvere da soli.

Ogni seduta deve essere considerata come incontro unico e rinnovabile solo fissando un nuovo appuntamento.

E’ opportuno comunque riflettere sul fatto che un percorso terapeutico è un percorso di conoscenza di sè che è utile affrontare con serietà.

La psicoterapia

La psicoterapia è una terapia della parola; è l’arte di saper dare il giusto nome alle istanze della psiche per donare un senso nuovo, più profondo e più ampio alla propria biografia e alla propria storia.
E’ essenzialmente un percorso di conoscenza di sè stessi che porta anche a imparare a rispettare i propri tempi interni.

Jung diceva che: “tutto ciò che ha valore esige tempo e richiede pazienza” affinchè le parole dette e ascoltate diventino memoria.

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ALL’AMORE ASSENTE

ALL’AMORE ASSENTE

“Ci sono infiniti modi per non amare”
Racamier

“Racamier diceva – con amarezza – che ci sono infiniti modi per non amare il proprio figlio (immaginarsi poi l’amare gli altri) e con questo intendeva che ci sono innumerevoli tipi di relazioni basati sulla prevaricazione e sul nutrirsi dell’altro che vengono caoticamente chiamati amore.

Anche amare troppo non è amare.

Anche aspettarsi sempre di essere amati troppo non è amore.
Ovviamente dovremo provare a concordare su cosa significhi amare.

Io proporrei di pensare l’amare come ad una disposizione di apertura e di rispetto verso l’altro che porta – si spera – ad un incontro autentico e di reciproca scoperta e rispetto.
Possiamo fingere di essere aperti, possiamo anche pensare di essere buoni e di non poter che amare la persona che abbiamo di fronte. Ma questa finzione si fonda sulla paura che noi abbiamo di noi stessi e dell’altro al punto che l’unica via è renderlo più simile a noi e rendere noi stessi simili a santi.

Ritengo che l’unico modo di scoprire cosa significhi amare sia essere stato amato o trovare qualcuno che ci guardi con disponibilità e che si disponga a capire il nostro mondo, senza giudizio, senza pregiudizio e sopratutto senza fretta. Senza manzoniana compassione ma con interesse.
Se siamo fortunati incontriamo questo sguardo nei genitori ma non è mai tardi per fare questa esperienza radicale. E’ una esperienza che si può esperire anche da adulti ed è fortemente auspicabile che ciascuno possa incontrare un’altra persona che lo sappia amare nel corso della sua vita.

Ma se crediamo di poter insegnare ad una persona ad amare in realtà non lo stiamo amando affatto, poichè non ci fidiamo di lui, non riteniamo che abbia in sè la potenzialità all’incontro.
Il più delle volte avremo solo fretta che ci assomigli.

L’amore si offre, si incontra, semmai si mostra, ma non credo si possa insegnare ne tantomeno possa essere materia di addestramento.

In questo senso concordo sul fatto che se incontriamo una creatura che non ha mai conosciuto uno sguardo d’amore molti di noi sentiranno (fortunatamente) il desiderio di proporgli un’alternativa.
Ma l’alternativa può essere solo lo sguardo di un amore “sano e rispettoso”, non intrusivo, non invadente e dalla giusta distanza.
Deve essere un’alternativa di sostanza, di essenza, non solo di gesti appresi.
Possiamo fingere qualsiasi esperienza ma spesso viviamo, e ripetiamo, solo ciò che è successo anche a noi.
L’altro sente sempre la differenza”.

Prof. Giorgio Maria Ferlini, Aretusa, 2012*

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* Giorgio Maria Ferlini, Psichiatra e Psicoterapeuta, è stato Ordinario alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova e Presidente della Scuola in Psicoterapia e Fenomenologia “Aretusa”.
Giorgio Maria Ferlini. Parte prima: https://www.youtube.com/watch?v=th5d-5DhyMc
Giorgio Maria Ferlini. Parte seconda: https://www.youtube.com/watch?v=W3NGW9jkQIY
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Immagine di copertina:
Poster del film: “All’amore assente”, A. Adriatico, 2007
Foto ed elaborazione grafica di Donato Saulle (2008)
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ACCANTO A TE

ACCANTO A TE

Accanto a te non ho nulla di cui scusarmi,
nulla da cui difendermi,
nulla da dimostrare: trovo la pace…
Al di la’ delle mie parole maldestre
tu riesci a vedere in me semplicemente l’uomo.”

Antoine de Saint-Exupéry – Il Piccolo Principe 

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Antoine de Saint-Exupéry 

Antoine de Saint-Exupéry

Antoine Jean Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry, (Lione, 29 giugno 1900 – Isola di Riou, 31 luglio 1944), è stato uno scrittore, aviatore e militare francese.

È conosciuto nel mondo per essere stato l’autore del famoso romanzo Il piccolo principe, che è il testo più tradotto di narrativa più tradotto al mondo.

La sua scomparsa nel corso di un volo di ricognizione, avvenuta sul finire della guerra, restò per molti anni misteriosa, finché nel 2004 venne localizzato e recuperato il relitto del suo aereo, nel mare antistante la costa marsigliese.

ICHAZO   BIRDY

LE PASSIONI DOMINANTI – La teoria psicologica di Oscar Ichazo

LE PASSIONI DOMINANTI

La teoria psicologica di Oscar Ichazo

“Al centro di ogni carattere, in reciproca relazione l’uno con l’altro, sono presenti una forma di motivazione da carenza e un errore cognitivo”
O. Ichazo 

Oscar Ichazo (Bolivia, 1931 – 2020) insegnò in Cile nell’Istituto di Psicologia Applicata di Santiago e ad Arica (al confine tra Cile e Perù). Dichiarò di essere entrato in contatto con la sapienza Sufi in Afghanistan.

Le sue teorie sono molto complesse, hanno radici profonde e una dimensione che non verrà trattata in questo post che deve essere considerato solo come il tentativo di una sistemazione divulgativa estremamente ridotta di una visione.

Visione che spero possa essere considerata interessante, pur nella semplificata esposizione.

La teoria di Ichazo si basa sull’individuazione di alcune modalità in cui l’ego di una persona diventa fisso nella psiche in una fase iniziale della vita.

Per ciascuna persona, una di queste fissazioni dell’ego diventa il nucleo di un’immagine di sé intorno alla quale si sviluppa la propria personalità psicologica e il proprio carattere.

Ogni fissazione è anche supportata a livello emozionale da una particolare “passione “.

Gli insegnamenti di Ichazo sono stati progettati per aiutare le persone a trascendere, a superare, la loro identificazione con i propri modelli automatici e inconsci di pensiero e di comportamento e con le sofferenze causate da essi.

Ichazo ha indicato i tre istinti umani fondamentali per la sopravvivenza: “conservazione”; “relazione” e “adattamento”.

Dunque secondo Ichazo, la fissazione di una persona deriva dall’esperienza soggettiva nell’infanzia del trauma psicologico che viene vissuto quando le aspettative non sono rispettate in ciascuno degli istinti di base.

Ogni personalità rappresenta la cristallizzazione e l’irrigidimento delle difese infantili nel processo di adattamento precoce con l’ambiente e si struttura attorno a un nucleo emozionale (“passione” dominante), un nucleo cognitivo (“fissazione” dominante) e un nucleo che riguarda la sfera degli istinti che regolano l’attività umana.

Gli esseri umani, nei loro primi anni di vita, sono auto-centranti e perciò possono essere disattesi nelle loro aspettative in uno o in più di uno dei tre atteggiamenti fondamentali.

Da tali esperienze, il pensiero automatico e i modelli di comportamento si presentano come tentativi di difesa contro la ripetizione del trauma da carenza.

Conoscendo le proprie particolarità con la pratica dell’auto-osservazione si ritiene che una persona possa ridurre o addirittura trascendere la sofferenza causata dalle fissazioni.

Lo scopo del terapeuta è quello di individuare, insieme al paziente, le tendenze principali del carattere, le visioni del mondo e le attitudini, nonché le più probabili ipotesi evolutive, permettendo di accrescere le possibilità di auto-comprensione e di trasformazione interiore del paziente superando gli automatismi e eliminando le sofferenze radicate nell’attaccamento e nella identificazione con questi meccanismi difensivi che, Ichazo insegna, in qualche modo tentano di proteggerci dalla sofferenza, ma che in realtà non fanno altro che perpetuarla.

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Fonti:
O. Ichazo, Interviews with Oscar Ichazo, Arica Institute Press, 1982
C. Naranjo, Atteggiamento e prassi della teoria gestaltica, 1991
A. H. Almaas, L’ enneagramma delle idee sacre. Aspetti molteplici della realtà, Trad. D. Ballarini, Astrolabio, 2007
Igor Vitale, Enneagramma. La storia dal sufismo in poi Gurdjieff, Ouspensky, Ichazo, marzo 2nd, 2013 | Posted by Igor Vitale in Psicologia Clinica, http://www.igorvitale.org/category/psicologia-clinica/ consultato il 10/07/2017
S. Vegetti Finzi, Storia della Psicanalisi, Autori opere teorie 1895-1990, Mondadori 1990
https://en.wikipedia.org/wiki/Oscar_Ichazo
https://en.wikipedia.org/wiki/Arica_School
Immagine di copertina tratta da: Birdy – Le ali della libertà (Birdy), Alan Parker, 1984blu psicologo milano

LE PAROLE PER DIRLO

LE PAROLE PER DIRLO

Storia di una rinascita femminile di Marie Cardinal

“La comprensione del proprio passato lo cambia“

Marie Cardinal 

Marie Cardinal, nata ad Algeri nel 1929, insegnate di filosofia e giornalista, è stata autrice di numerosi romanzi di successo sulla condizione femminile.

Tra le traduzioni italiane ricordiamo: In altri termini (1977) Una vita per due (1979), La trappola (1983), Come se niente fosse (1992) 

Le parole per dirlo

E’ stato pubblicato per la prima volta nel 1975.

Incubi, angosce, paura della morte e della vita. E‘ un male che paralizza, inibisce, confonde, fa perdere conoscenza di sè, annulla il senso delle proprie azioni.

La famiglia, i ruoli, la condizione di donna, la società, la morale. E a monte un’infanzia tradita, presupposti sbagliati, pregiudizi, ossessioni arcaiche…

E‘ la storia tutta al femminile di un’analisi, di un graduale recupero di sè, di una nuova nascita nella consapevolezza.

Una storia che, tradotta nella pagina, ha sconvolto, commosso e convinto.

Marie Cardinal è ormai il simbolo di una certa scrittura, di un modo intimo, caldo e vero di affrontare il problema femminile dalla parte del linguaggio.

 

In certi momenti

In certi momenti durante le mie crisi sono stata più acuta e più lucida di quanto non sarò mai più.
Ne serbo un ricordo struggente.
Durante quei momenti di crisi avevo scoperto nella mia mente certe strade di cui non avrei mai sospettato l’esistenza se fossi stata normale. Ero capace di una incredibile agilità intellettuale.
Mi venivano, di tanto in tanto, dei pensieri acuti, sottili, chiari, che mi portavano a una maggiore conoscenza, a una comprensione più profonda di ciò che mi circondava.
Osservavo gli altri e li vedevo prendere direzioni tanto diverse dalla mia, addirittura opposte, tanto pericolose per loro che volevo fermarli, avvertirli del rischio che correvano.
Non lo facevo perchè mi credevo malata e pensavo che queste scoperte fossero frutto della pazzia.
Come potevo tremare all’idea che gli altri si perdessero se la pazza ero io?

In questa esplorazione nelle profondità del mio inconscio la prima cosa che ho capito è stato il sistema di segnali, in seguito ho scoperto il segreto dell’apertura di molte porte.
La resistenza della nostra mente ad aprire queste porte è straordinaria.

Per poter controllare la mia violenza ho dovuto imparare il rispetto degli altri e il rispetto di me stessa.
Sono diventata responsabile.
E non è stato facile.

Nel Sertao

Nel Sertao, una delle zone più secche e aride del Brasile, crescono radi cespugli.
Se si tenta di strapparli ci si accorge che le radici sono robustissime e diventano sempre più grosse in profondità.
Continuando a scavare si scopre che comunicano con le radici degli altri cespugli e tutte convergono verso una radice ancora più grossa che scende sempre più giù,  fino a diventare un unico enorme tronco che perfora il terreno come un trapano.
Si tratta infatti di un albero gigantesco che si è sotterrato da solo fino a venti o trenta metri sotto terra per cercare l’acqua per sopravvivere.
I cespugli che affiorano in superficie sono soltanto le estremità dei rami e le foglie di questa pianta gigantesca e sommersa.

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Fonte: “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal

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Il presente post ha il solo scopo di divulgare il libro senza scopo di lucro.

NON MI TRATTENERE

NON MI TRATTENERE

Lasciami andare a vedere il sogno,
la velocità,
il miracolo.
Non fermarmi con uno sguardo triste.
Questa notte lasciami vincere
laggiù,
sull’orlo del mondo.
Solo questa notte.
Poi tornerò.

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“Utilizzo una modalità di intervento orientata a sviluppare le potenzialità umane e la riduzione del disagio nel rispetto delle inclinazioni e delle caratteristiche personali”

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Il presente post ha il solo fine di divulgare il libro e/o  il film da cui è stato tratto senza scopo di lucro.

LA PSICOLOGIA DI ALFRED ADLER

“Veniamo influenzati non dai fatti ma dall’opinione che abbiamo dei fatti” 
Alfred Adler

Alfred Adler nacque a Vienna nel 1870. Psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista austriaco incontrò Freud nel 1902 e ne rimase fedele allievo solo per pochi anni e cioè fino al 1911.

“Già durante il periodo di collaborazione con Freud, Adler aveva intuito il ruolo che una presunta inferiorità organica poteva avere sulla vita dell’individuo, e da questa prima ipotesi nacque il concetto di pulsione aggressiva quale principio dell’energia psichica; per Adler, infatti, il movente istintuale principale è un’aggressività che compensi il senso di inferiorità nei confronti dei propri simili.

Nel 1911 abbandonò completamente la teoria freudiana degli istinti e della libido, proponendo che il riferimento psicoanalitico alla sessualità fosse inteso esclusivamente in senso metaforico.

La nevrosi maschile rappresenterebbe una “protesta virile”, una sovracompensazione nei confronti di un sentimento di inadeguatezza.

Gli individui si sentono inadeguati e imperfetti, e per compensazione si autoingannano creandosi uno “stile di vita” che costituisce essenzialmente una modalità esistenziale tesa al raggiungimento di una superiorità nei confronti degli altri.

La psicoterapia, quindi, consiste in una libera discussione su di un piano paritetico tra lo psicoterapeuta e il paziente con l’intento di individuare il movimento inconscio in cui il paziente ha “organizzato” questo autoinganno da cui discende uno stile di vita fittizzio e nevrotico. Adler diede molta importanza al contesto ambientale e all’interesse per i problemi sociali quali elementi per la crescita sana dell’individuo.

Per le sue idee sociali e per la sua motivata convinzione che le difficoltà psicologiche dell’individuo risalgano, in ultima analisi, a fattori storici e culturali, egli viene considerato il precursore delle revisioni “sociali” della psicoanalisi.”*

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* Tratto da: U. Galimberti, Psicologia, Le Garzantine, Garzanti, Torino 1999 – pg. 8

Alfred Adler

la retroflessione

LA RETROFLESSIONE PSICOLOGICA

LA RETROFLESSIONE PSICOLOGICA

Un meccanismo di difesa

Un percorso di psicoterapia è essenzialmente un percorso di conoscenza di sè.

Durante questo percorso è possibile riflettere su alcuni comportamenti che si mettono in atto e che non hanno, apparentemente, una spiegazione razionale.

E’ necessario che in questo percorso si sia seguiti e affiancati da uno psicoterapeuta in quanto interpretazioni autonome possono esitare in convinzioni erronee.

Di seguito viene esposto sinteticamente e solo a scopo divulgativo il fenomeno della “retroflessione”.

LA RETROFLESSIONE

E’ l’atteggiamento di colui che fa a sé stesso ciò che avrebbe voluto (originariamente) fare ad un altro.

Se l’ambiente risulta troppo forte, ostile e frustrante la persona rinuncia a lottare, si arrende e si adegua ma dentro di sé il bisogno continua a premere e bisogna impiegare una forte quantità di energia per impedirgli di esprimersi.

Scrive Perls:

“… l’organismo si comporta verso il proprio impulso nello stesso modo dell’ambiente; vale a dire lo reprime.

La sua energia viene pertanto divisa.

Una parte tende ancora verso le sue mete originarie e insoddisfatte; l’altra parte viene retroflessa per tenere a freno la prima tesa all’esterno.

A questo stadio le due parti della personalità lottando in direzioni diametralmente opposte entrano in lotta tra loro.

Quel che è cominciato come un conflitto tra l’organismo e l’ambiente è diventato un conflitto interno tra una parte e l’altra della personalità, tra un tipo di comportamento e il suo inverso “.

Pensare, filosofare, elaborare progetti senza arrivare alla realizzazione possono costituire delle retroflessioni se questi atteggiamenti sopravvengono in luogo e al posto dell’azione.

Si potrebbero aggiungere a questo proposito le considerazioni classiche della psicanalisi sulla depressione:

il depresso si squalifica e si autoaccusa perché butta su di sé il risentimento per l’oggetto d’amore che se ne è andato.

Di fronte ad un paziente che si autopunisce e si autocommisera o dice di soffrire di un complesso di colpa Perls non ha esitazioni nel suggerirgli per prima l’ipotesi della retroflessione.

I suoi interventi di solito sono del tipo: se invece di graffiarti in continuazione io ti proponessi di graffiare qualcun altro, chi avresti voglia di graffiare in questo momento?

oppure: chi avresti voglia di criticare e di far sentir colpevole?

Allo stesso modo lavora con i sintomi psicosomatici.

Naturalmente il concetto di retroflessione comprende anche l’atteggiamento opposto a quelli esaminati sino ad ora, cioè l’atteggiamento di chi fa a sé stesso ciò che amerebbe che altri facessero a lui e che lui non osa chiedere.

Si pensi a certe forme di narcisismo, si pensi all’atteggiamento di dondolarsi invece di cercare la tenerezza di un patner desiderato o alla compensazione affettiva di tante forme di autogratificazione.

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Fonti:

Perls Fritz, “L’Io, la fame, l’aggressività”, Milano, Franco Angeli, 2003
Perls Fritz, Hefferline R.F., Goodman Paul, “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, Roma, Astrolabio, 1971