“Forse la cosa più bella della psicologia analitica di Jung è il concetto di individuazione.
Scopo della psicanalisi e il processo di individuazione che può essere tradotto con una frase emblematica di Nietzsche “diventa ciò che sei”.
Nel senso che nella nostra vita noi continuiamo a seguire modelli che sono necessari perché si cresce per processi imitativi.
I bambini crescono perché vedono e imitano, ma poi bisogna staccarsi da questa imitazione e diventare quello che propriamente si è. E’ una ricognizione di se.
Qui c’è tutta la cultura greca alle spalle di questo concetto.
L’oracolo di Delfi diceva “conosci te stesso”, e la prima condizione per diventare sé stessi quella di conoscersi, conoscere le proprie potenzialità, la propria aretè (ἀρετή) dicevano i greci.
La propria virtù, la propria capacità, ciò per cui sei nato.
E se riesci a far fiorire ciò per cui sei nato, se davvero diventi te stesso al di là dei modelli che vuoi imitare, al di là delle belle cose che ti vengono fatte vedere, se riesci a diventare te stesso, raggiungi la felicità.
Lo scopo dell’analisi è diventare sè stessi e per questo però bisogna uscire dai comportamenti collettivi dice Jung.
Non bisogna essere come gli altri,
non bisogna essere neppure eccessivamente eccentrici,
perché non bisogna confondere l’individuazione con l’eccentricità
Ma quella di diventare sè stessi e la condizione, non solo della salute, ma addirittura della felicità”.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2021/07/romaguidetour-visite-guidate-personalizzate-roma-leonardo-vinci-scuola-atena-square.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2021-07-09 08:25:512021-07-11 13:49:49LA VISIONE DI JUNG – Diventa ciò che sei
La convenzione prevede la possibilità di poter usufruire dei Voucher emessi da aziende che aderiscono a EASY WELFARE anche per prestazioni di Psicoterapia presso questo studio di Psicologia e Psicoterapia.
Per maggiori informazioni potete chiamare il numero 3477966388 o inviare una mail a
Vorrei dirti sempre che t’amo
ma non quando è facile
oppure le braccia conserte
si guarda quel muro davanti
si ascolta il rumore
vorrei lo sapessi
non sono il migliore
ho un patto con gli anni,
cavalco,
ho paura,
mi tengo da sempre una mano sul petto
dovesse mai smettere,
ascolta,
di battermi il cuore.
Tratto da: “Ulisse e l’America” di Roberto Vecchioni
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2021/03/ooo.jpg435985Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2021-03-21 16:10:332022-10-08 13:26:43NON SONO IL MIGLIORE
“Jung morì nel 1961, all’età di 86 anni.
Nello scritto Gli stadi della vita (1930/1931) troviamo i temi principali della sua riflessione sull’invecchiamento e sul corso della vita.
Durante la prima metà della vita l’uomo deve costruire un Io robusto e raggiungere gli obiettivi storicamente definiti dall’ambiente sociale.
Ciò comporta tuttavia una mutilazione della personalità perché alcune funzioni vengono represse, rimangono inutilizzate o indifferenziate.
Lo sviluppo è intrinsecamente unilaterale.
Dalla tensione tra radicamento nel mondo e mutilazione di alcuni importanti aspetti della soggettività nascono la crisi della seconda metà della vita e la spinta profonda, compensatoria, a riappropriarsi dell’altra metà di sé.
Invecchiare è difficile.
L’uomo contemporaneo non ha più il conforto di un rito che conferisce all’invecchiamento un significato condiviso dalla collettività.
L’unica guida che rimane, afferma Jung, è la voce dell’inconscio.
La relazione tra l’Io e l’inconscio – ovvero tra lo sguardo razionale della coscienza e le produzioni inconsce personali e collettive – rappresenta la via maestra per correggere l’unilateralità della coscienza e dei suoi valori e aprire la possibilità di riscatto di una vecchiaia vissuta come null’altro che decadimento.
L’avanzare dell’età non costituisce, in sé, una barriera all’individuazione poiché non provoca necessariamente la rigidità psicologica segnalata da altri autori.
La difficoltà sta nell’acquisire la capacità di comprendere, integrare e, se necessario, depotenziare i contenuti inconsci, alcuni dei quali posseggono una forza distruttiva che varia in relazione alla costituzione e alle vicende esistenziali.
Jung pone il quesito sul senso dell’invecchiamento.
Che cosa può spingerci a dire che il nostro invecchiamento non è riducibile al ritornare inorganici di Freud (1920)?
La risposta junghiana viene formulata nei termini seguenti.
Mentre il senso del mattino della vita consiste nel mettere radici nel mondo, trovare il proprio posto nella società, lavorare e amare, il senso del pomeriggio della vita consiste nel mettere radici nell’anima per accedere a un tipo di saggezza che supera l’Io e la sua prospettiva sul mondo.
Durante la prima metà della vita il fine è la “natura”, durante la seconda metà della vita il fine è la “cultura”, ovvero l’allargamento della soggettività, la differenziazione e l’integrazione delle parti della propria personalità fino ad allora rimaste inconsce.
Secondo Hillman (1967), il Puer e il Senex sono polarità dello stesso archetipo – l’archetipo Puer-Senex – che rimanda alla tensione tra vitalità e ordine, Io e Sé. Hillman vede nei “sintomi della vecchiaia” – rigidità, ottusità e isolamento – non solo la conseguenza di una generica incapacità di entrare in contatto con l’inconscio quanto, più specificamente, il risultato della scissione del Senex dal Puer. Essa produce un grottesco ibrido senile e puerile che manifesta i lati negativi del Senex e del Puer.
In uno scritto Hillman (1999) afferma che il fine dell’invecchiamento coincide con il compimento e il disvelamento del “carattere”.
Il tempo della vecchiaia non è tempo inutile di decadimento e desituazione, vissuto nell’attesa della morte persecutrice e del ritegno del figlio edipico bensì grande avventura verso il compimento di sé, un’avventura che ha bisogno di longevità per svolgersi e concludersi.
Guggenbühl-Craig (1986) arricchisce le immagini della vecchiaia con quella del Vecchio Stolto.
Il Vecchio Stolto è un aspetto dell’ombra del Senex e possiede una funzione compensatoria rispetto alle visioni idealizzate e anestetizzate dell’invecchiamento (come a tratti appare la visione hillmaniana), dell’individuazione del Sé.
Allo stesso tempo, il Vecchio Stolto raffigura un aspetto d’ombra diverso da quello del vecchio re dispotico ricordato da Jung o dall’immagine freudiana della vecchiaia come esaurimento della psiche e ritorno a una dimensione inorganica.
Il Vecchio Stolto non è un re ma un buffone tutt’altro che inorganico.
Qualcosa di simile alla saggezza può essere raggiunto durante la vecchiaia ma ciò che rende difficile tale acquisizione è, secondo Guggenbühl-Craig, la perdita del contatto con l’inconscio e con la coscienza collettiva.
Il vecchio desituato si trasforma in figura storica, anacronismo vivente.
Ma non se ne accusa e accusa i giovani di disorientamento etico.
Dice che il mondo vive all’insegna dell’insicurezza ma non vede che lui stesso è insicuro e non sa più capire il mondo.
Mentre Hillman sottolinea la necessità di integrare il Puer col Senex, Guggenbühl-Craig propone di integrare l’immagine del Vecchio Saggio con quella del vecchio smemorato, pasticcione ed emotivamente labile: il Vecchio Stolto.
Ciascuna immagine è in sé parziale e perciò genera contenuti psichici distorti, emozioni, aspettative e convinzioni problematiche.
È cosa saggia invece accettare il deterioramento fisico e mentale, le malattie e la morte, accettare di essere anche una figura storica che ha perso il contatto con la coscienza e l’inconscio collettivi.
Lacivitas non deve imprigionare il vecchio nel mito della saggezza, non deve costringerlo a partecipare in modo costruttivo alle vicende della comunità.
Gli sia concesso – dalla società, dai figli, da se stesso – di essere saggio o sciocco, profondo o superficiale, di lavorare oppure oziare.
Coloro che si identificano con l’immagine del Vecchio Saggio diventano patriarchi cocciuti, convinti di possedere la saggezza e incapaci di vedere quanto sono sciocchi e tirannici.
Il mito del Vecchio Stolto non è tirannico: al vecchio non è richiesto di diventare stolto, soltanto gli è concesso, e lo può fare senza scandalo.
La medicina definisce l’invecchiamento come il progressivo e generalizzato decremento funzionale che conduce alla perdita della risposta adattativa allo stress e ad un aumento del rischio di malattie correlate all’età.
In questa definizione possiamo rintracciare il primo universale dell’invecchiamento: la dimensione ineludibile del decadimento.
Se riflettiamo sui modi in cui il soggetto fa esperienza del decadimento, siamo abituati a pensare alla perdita e al narcisismo ferito.
Tuttavia esiste una categoria più aderente all’esperienza dell’invecchiare, che raccoglie il tema della perdita e delle ferite narcisistiche ma supera il cerchio dell’individuo e include il rapporto dell’individuo col mondo.
È il secondo universale dell’invecchiamento: la desituazione.
Se consideriamo il decadimento e la desituazione come vincoli universali e tuttavia sempre aperti alla possibilità dei significati e della scelta, possiamo fare riferimento al discorso junghiano sull’individuazione e pensare il decadimento e la desituazione come universali appartenenti a un’esistenza che non approda necessariamente alla disperazione ma si mantiene aperta alla speranza, anche alla laica e paradossale speranza nella Morte e nel Figlio.
Nel passato molti autori sostenevano che l’invecchiamento porta l’individuo verso l’incoercibile coazione a ripetere i medesimi stili difensivi e di adattamento ai conflitti e alle frustrazioni.
Tutto ciò, assieme alla grande quantità di materiale della memoria ed allo spegnimento della libido, rende l’anziano non analizzabile.
Oggi, anche alla luce delle ricerche neurologiche sull’invecchiamento cerebrale e sulla plasticità neurale e delle ricerche epidemiologiche sullo stato di salute e sulle funzioni cognitive degli anziani, è ragionevole pensare che l’analizzabilità dell’anziano non sia determinata principalmente dall’età ma dal percorso esistenziale e dalla qualità del rapporto tra l’Io e l’inconscio.
Caduta la preclusione (biologica o pulsionale) all’analizzabilità, che in fondo rifletteva una rigidità della psicoanalisi più che dell’anziano, il problema può essere riformulato nei termini della relazione tra paziente anziano e terapeuta (più giovane), evidenziando anche il contesto collettivo in cui avviene tale relazione.
La relazione tra paziente anziano e terapeuta (più giovane) può essere considerata da quattro punti di vista: la maggiore fragilità del corpo (il decadimento), la marginalità dell’anziano nella società (la desituazione), la rigidità, la dinamica Puer-Senex nel terapeuta (la soggettività del terapeuta) (Spagnoli e Pierri, 2001).
Vediamoli brevemente.
Il corpo dell’anziano è più fragile tuttavia il terapeuta può rimuovere questo fatto e vivere un senso di irrealtà quando, durante la terapia, compare un evento clinico intercorrente.
Il corpo fragile provoca un senso di fragilità rispetto allo spazio e evoca i vissuti di morte: la morte è certo riconducibile al simbolico ma, soprattutto nei pazienti molto anziani, è lì davvero, vicino al paziente e al terapeuta.
L’anziano va in psicoterapia (o viene inviato allo psicoterapeuta, spesso sollecitato dai figli) sospinto da una “sindrome ansioso-depressiva”, da disturbi somatoformi o da una demenza iniziale.
Spesso è un non-responder alle terapie con psicofarmaci prescritte dal medico di base.
In alcuni casi la richiesta è più specificamente analitica e allora quasi sempre proviene da persone che in passato sono state in analisi o comunque hanno avuto esperienze psicoterapeutiche.
Indipendentemente dalla ragione dell’invio o dalla natura della crisi motivante, il paziente anziano patisce un senso di marginalità, si sente sempre più estraneo al mondo, inutile, invisibile, desituato e con questi sentimenti deve misurarsi.
A maggior ragione oggi, poiché la tecnica ha nullificato l’esperienza del vecchio.
Così il radicamento nell’anima di cui parla Jung trova due origini: da un lato l’individuazione come spinta interiore, dall’altro la desituazione come alienazione rispetto al presente.
Il mondo risulta estraneo per gusti, linguaggi, valori.
Perdiamo il mondo e lo possiamo ritrovare soltanto attraverso un’apertura che non proviene dall’Io.
In questa nuova apertura sta la sostanza del discorso junghiano sull’invecchiamento, dell’idea eriksoniana di saggezza (Erikson et al., 1986) e del concetto kohutiano di narcisismo cosmico (Kohut, 1978).
Secondo la visione tradizionale, nell’anziano la libido narcisistica prevale rispetto a quella oggettuale e i meccanismi di difesa, che mirano a ridurre l’ansia e proteggere l’autostima, si irrigidiscono, ovvero divengono pervasivi, automatici e ancora più inconsci.
Tutto ciò rende impossibile la trasformazione.
Altri autori hanno sottolineato la dimensione dinamica e qualitativa delle difese rispetto a quella energetica ed “economica”. Si può così riformulare il tema della rigidità psichica dell’anziano nei termini della qualità maturativa dei meccanismi difensivi.
La repressione, la sublimazione, l’altruismo, l’umorismo si presentano come difese che consentono, anche nella vecchiaia, un migliore equilibrio tra adattamento e creatività rispetto alla rimozione, alla scissione e all’eccesso di identificazione proiettiva.
L’affermazione di Jung che le persone nella seconda metà della vita pongono al terapeuta, in vari modi, il problema esistenziale (inteso come domanda di senso), deve essere vista anche sotto il profilo del contro-transfert: tale problema, e i sentimenti da esso costellati, coinvolgono profondamente la soggettività del terapeuta e in particolare costellano i motivi del decadimento, della desituazione, della Morte e del Figlio.
In fondo l’anziano, sofferente o felice, incarna anche una domanda di senso rivolta a se stesso, al terapeuta e alla società.
Qual è il senso della vecchiaia?
Qual è il senso del lavoro di chi opera nei servizi sanitari e sociali per gli anziani?
La società attuale sottrae dignità all’invecchiamento relegandolo tra i disvalori collettivi.
Alberto Spagnoli Quando la stanza invecchia Il medico junghiano e il paziente anziano
Questo testo è tratto dal saggio “Quando la stanza invecchia”, e compare nel volume di autori vari, a cura di Maria Irmgard Wuehl pubblicato dall’editore Vivarium, Nella stanza dell’analista junghiano.
psicoterapeuta, ha pubblicato, fra l’altro E divento sempre più vecchio (Bollati Boringhieri, 2001); è impegnato nel “Aging, Progetto Finalizzato Invecchiamento.”
Note L’idea di psicoterapia psicoanalitica e di analisi come aiuto a prendere cura di sé, vivendo col paziente alcune esperienze che si intrecciano tra loro e sono riconducibili a: il supporto (che rimanda ai concetti di holding ed al rapporto contenuto-contenitore), la comprensione (pensabilità, dicibilità e comunicabilità dei contenuti psichici, con una particolare attenzione alle angosce, al confronto con l’ombra e ai meccanismi di difesa) e la trasformazione, ovvero l’emergere di nuove emozioni e pensieri che facilitano un adattamento creativo.
Bibliografia
Erikson E. H., Erikson J. M., Kivinick H. Q., (1986) Vital involvement in old age, Norton, New York.
Ferro A., (1996) Nella stanza dell’analisi. Cortina, Milano.
Freud S., (1920) “Al di là del principio di piacere”, Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Guggenbühl-Craig A., (1986) Il vecchio stolto e la corruzione del mito, Moretti & Vitali, Bergamo, 1997.
Hillman J., (1967) Senex e puer, Marsilio, Padova 1973.
Spagnoli A., Pierri M., (2001) “Psicoterapie ad indirizzo dinamico”, in Scocco P., De Leo D., Pavan L. (a cura di), Manuale di psicoterapia dell’anziano, Bollati Boringhieri, Torino.
Kohut H., (1978) La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1982
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2021/03/QUANDO-LA-STANZA-INVECCHIA2.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2021-03-02 08:05:562022-03-03 13:58:26QUANDO LA STANZA INVECCHIA
Sindromi caratterizzate da timidezza eccessiva, ansia ed evitamento sociale sono state descritte nella letteratura fin dai tempi di Ippocrate (V sec. a.C.).
Egli racconta, infatti, di un suo paziente che “a causa della timidezza e della incertezza eccessive non usciva mai di casa; per il timore di essere giudicato non frequentava nessuno; per il terrore di sbagliare non parlava mai e, infine, riteneva di essere sempre osservato da tutti”.
Provare ansia
Quindi, provare ansia, in situazioni nelle quali si è esposti al giudizio e alla critica degli altri è una esperienza ubiquitaria, condivisa, da sempre, dalla maggior parte delle persone.
L’ansia sociale tende a essere più intensa quanto maggiore è la novità o l’importanza che che viene attribuita al contesto che deve essere affrontato.
Manifestazioni
Può manifestarsi sia in situazioni formali (recitare, tenere una relazione di fronte a un pubblico), che informali (andare a una festa, cercare di conoscere qualcuno, incontrare un estraneo), come pure in contesti che richiedono un comportamento assertivo (esprimere disaccordo, restituire merci a un negozio, resistere alle pressioni di un venditore insistente) o che presuppongono l’essere osservati nello svolgimento di un compito specifico (scrivere, lavorare, bere, mangiare in pubblico).
L’ansia che si prova in situazioni sociali
è caratterizzata da sensazioni soggettive spiacevoli di nervosismo, tensione, inadeguatezza, disagio, associate a manifestazioni neurovegetative quali rossore al volto, tremori, sudorazione.
Di solito non arriva a interferire negativamente con il funzionamento dell’individuo e a volte aumentando i livelli di arousal, contribuisce a migliorare le prestazioni e a modulare in maniera adattativa i rapporti interpersonali e sociali.
In alcune persone
tuttavia, l’entità delle manifestazioni ansiose e la paura possono risultare sproporzionate rispetto alla situazione che deve essere affrontata, determinando un disagio marcato e delle limitazioni funzionali considerevoli; si parla in questo caso di Ansia o Fobia Sociale.
Tutte le manifestazioni umane e quindi anche l’ansia e la fobia sociale hanno una origine e una convinzione che le sostengono che devono essere necessariamente valutate e trattate come caratteristiche personale la cui origine è nel singolo individuo.
Tuttavia non è utile una comprensione intellettuale del disturbo, solo quello non serve, e può essere, anzi, fonte di ulteriore frustrazione.
Quello che è utile in questi casi è cercare di uscire dal cerchio chiuso della coazione a ripetere inserendo un elemento umano, cercando una modalità nuova e più sciolta di comunicazione.
Una delle possibilità è quella di sperimentare una nuova forma di relazione con un terapeuta, che si pone fuori dalla rete relazionale e sociale in cui la persona è inserita e che garantisca appunto il rispetto e la comprensione della propria esperienza e dei propri valori e orientamenti personali, che garantisca la riservatezza, il rispetto e la comprensione della propria storia.
Il passato può essere rimosso o dimenticato e il futuro è sentito come sconosciuto perchè non si è ancora realizzato.
Molto spesso è temuto perchè sconosciuto,
ma questo intenso sentimento è in realtà un’emozione presente.
Bion sottolinea che passato e futuro sono in effetti profonde esperienze del presente.
Gli analisti sanno che il passato diventa presente attraverso il transfert.
Bion considera il concetto di mente estesa come un concetto ineludibile della psicoanalisi.
Le decisioni comportano la scelta di determinati futuri e il rifiuto di altri.
Il concetto di mente estesa temporalmente significa concepire il presente come contenitore dei passati e anche dei futuri.
I futuri si evolvono e la loro evoluzione incontra la mente che recepisce e che osserva,
manifestandosi nella decisione.
Psicologo Milano – Via San Vito, 6 (angolo Via Torino) – MILANO – Cell. 347.7966388
tratto da
“Introduzione al pensiero di Bion”
L. Grinberg, D. Sor, E. Tabak de Bianchedi
Raffaello Cortina Editore
Wilfred Ruprecht Bion (Mathura, 8 settembre 1897 – Oxford, 8 novembre 1979) è stato uno psicoanalista britannico. Figura di spicco della ricerca psicoanalitica, fu artefice di importanti elaborazioni della teoria psicodinamica della personalità tali da istituire un filone “bioniano” della moderna psicoanalisi che grazie anche ai suoi contributi, decorrendo dal fondamento freudiano, estende i contenuti teorici e metodologici all’area delle psicosi – particolarmente della schizofrenia – e ai fenomeni di gruppo.
Il presente post ha il solo fine di divulgare il libro e/o il film da cui è stato tratto senza scopo di lucro.
https://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2020/12/la-mente-estesa-per-sito.jpg4951030Donato Saullehttps://www.donatosaulle.it/wp-content/uploads/2022/01/psicologo-milano-Donato-Saulle.pngDonato Saulle2020-12-10 20:40:572020-12-22 17:38:02LA MENTE ESTESA – Il pensiero di Bion
Molti uomini, a causa del riso,
producono gioie illusorie:
ma io odio i buffoni che per mancanza dei saggi hanno bocche senza freno,
e non vanno verso armonia d’uomini,
ma nel riso degne case abitano,
e dalle navigazioni giungon salvi a casa“
Euripide
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